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sua camera, e mi pare mezza inferma. – Carlo, con licenzia del duca, ne la camera intrò in quello che ella, finito il suo lamento, era per la mortale angoscia isvenuta e tramortita. Trovatala di quel modo, Carlo, più morta che viva, for di misura dolente, quella si recò, più soave che puotè, ne le braccia; e amaramente piagnendo disse: – Ahi, signora mia! che accidente strano è cotesto? Volete voi sì repentinamente abbandonarci? – L’infelice dama, sentendo la voce del marito che troppo bene conosceva, prese alquanto di vigore, e aperti i languidi occhi, quelli nel viso al marito pietosamente affissando, quasi volendosi lamentare di lui, che il loro amore avesse manifestato, non potendo formare parola, gittato uno gran sospiro, in braccio al suo amante e </nowiki>marito rese l’anima al suo Creatore. Era allora uscita fora de la cortina la damisella, a la quale Carlo dimandò che infermità fosse stata quella de la dama. Ella non seppe altro dire, se non che li raccontò il grande e lamentevole rammarico che ella fatto pietosamente avea. Lo sventurato Carlo allora manifestamente conobbe che il duca aveva rivelato a la duchessa il secreto del suo amore. Tanto in quello punto dolore lo prese e sì tormentosa angoscia gli ingombrò il core, che io non so come egli restasse vivo. Riabbracciando dunque strettissimamente il morto corpo de la sua carissima dama, con le cadenti e abondanti sue amarissime lagrime il pallido volto di lei più volte lavò, dicendo tuttavia: – Aimè, traditore che io sono stato, ribaldo, scelerato, spergiuro e degno di ogni supplizio, e il più disgraziato uomo che mai si fosse! Perchè la punizione del mio peccato non è caduta sovra me e non sovra questa innocentissima dama, degna di vivere più lungamente? Ahimè, signor Dio! perchè hai permesso che costei porti la pena de l’altrui peccato? Chè cessò il cielo che egli non mi folgorò con quelle sue ardenti saette quella infausta e abominevole ora che io snodai la lingua a discoprire li nostri vertuosi amori, degni nel vero di più aventuroso fine? Perchè allora non si aperse la terra, per inghiottirmi prima che la giurata fede rompessi? Io, io devea allor allora essere sommerso e abissato nel centro de la terra! Ahi, lingua mia malvagia e serpentina! tu meriti bene essere condennata nel profondo baratro de l’inferno con quella del ricco Epulone, e mai non avere refrigerio alcuno. Ahi, cor mio scelerato e troppo timoroso di morte o di perpetuo esilio! perchè non diventi cibo immortale di una famelica aquila, come quello di Prometeo? o come il fegato di Tizio, sia tu corroso da uno mordace e famelico avoltoio! Ahi, signora mia, il maggiore infortunio