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cangiò. Ella miseramente ardeva, e tanto più duro provava esser amore, quanto meno poteva sfogarsi. Da l’altra parte Aleramo, che de l’amor de la fanciulla s’era avvisto, per sì fatta maniera le fiamme amorose aveva anco egli in petto ricevute che ad altro, giorno a notte, non sapeva rivolger l’animo, avendo sempre dinanzi agli occhi la bellezza di quella che sì fieramente l’abbrusciava. Mirabilissime sono e difficili ad investigare le forze de l’amore. Era in corte d’Ottone secondo gran numero d’uomini giovini ed eccellenti, ma nessuno a la giovane piacque se non Aleramo; vedevansi tutto il dì bellissime e vaghe donne, ma fra tanta turba Adelasia sola puotè il core d’Aleramo infiammare. S’amavano adunque i dui amanti segretissimamente, nè fidarsi di persona ardivano: gli occhi solamente erano de le lor fiamme e dei celati pensieri fidissimi segretarii e veloci messaggieri. E ancor che talvolta insieme favellassero, nessuno di loro ardì già mai le fiamme discoprire; tuttavia a l’uno e a l’altro pareva d’esser de l’amore ottimamente ricambiato, il che a tutti dui accrebbe fuoco a fuoco. Adelasia che era fanciulla di quindici anni, come più tenera e delicata, con inestimabil pena, affanno e noia sofferiva l’amorose fiamme, onde a niente altro pensando se non al suo caro amante, molte fiate fra sè, quando sola si trovava, diceva: – Che cosa è questa che più de l’usato nel mio cor sento? da che viene che il solito mio viver più non mi piace? Il pigliar l’ago e lavorar di trapunto, che cotanto m’aggradiva, ora m’è a fastidio; il leggere, che così mi dilettava, più non mi diletta; lo star in compagnia con le mie donzelle che tanto allegra mi teneva, il giocar con loro che così mi trastullava, l’andar per i giardini a diporto che tanto amava, a il veder far altri giuochi che sì spesso andava cercando, par che ora a noia mi siano, e che altro non brami nè altro cerchi che starmi sola e pascermi e nodrirmi di pensar a questo nuovo fuoco che l’ossa e le medolle mi consuma. Solamente dinanzi agli occhi miei sta di continovo la generosa e bella immagine del valoroso e cortese Aleramo di Sassonia. Pensando di lui m’acqueto e respiro; s’io lo veggio m’infiammo ed agghiaccio, e se nol veggio lo cerco e desio. Quando io l’odo parlare, il soavissimo ragionar suo l’anima e il petto così m’ingombra ch’eternamente ad udirlo intenta me ne starei. Ma lassa me! che dico io? che penso? che farnetichi, Adelasia? che brami? Deh, caccia, cor mio, questi nuovi e vani pensieri da te; non dar la via a queste fiamme che contra ogni devere accese si sono. Oimè, se io potessi, chè non sarei inferma come esser mi sento. Oimè, che nuova forza