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Luchino Vivaldo ama lungo tempo e non è amato; poi, essendo in libertà sua di goder l’amata donna, se n’astiene.


Io non potrei dirvi, molto vertuosa signora mia, quanto caro mi sia l’essermi oggi trovato qui in questa onorata compagnia, sì perchè dapoi che io pratico in casa vostra sempre ho trovato che ci sono ragionamenti piacevoli ed onesti, ora di lettere, ora d’arme, ora di casi fortunevoli così d’amore come d’altri accidenti, ed ora d’altre cose sempre vertuose; ed altresì perciò che non ci vengo mai che io non mi parta con aver imparato alcuna cosa. Son molti dì che io ho sentito dire in molti ragionamenti: «Costui è dei cacatocci di Milano», ma non m’è mai venuto fatto di poter intender a che fine si dicesse; ed ecco che oggi, non lo cercando, l’ho inteso senza ricercarne altrui, chè io fui più e più volte per dimandarne, ma impedito da altri miei affari, non so come, rimaso me ne sono. Ora venendo a quello che mosso m’ha in questo nobilissimo consesso a ragionare, vi dico che le lodi che date si sono al signor duca Francesco gli sono state meritevolmente date, con ciò sia cosa che in vero egli fu uomo eccellentissimo e gloria de la milizia italiana. Il quale se si fosse trovato a quei buoni tempi quando la republica romana fioriva, giovami di credere ch’egli a nessuno di quei grandi Fabii, Marcelli, Pompei a Cesari sarebbe state inferiore. Di Scipione la gloria è tale, così è da’ greci a da’ latini celebrato, che per altrui parole nè scemar si può nè accrescere. Ma che direte voi se parlando di continenza io vi porrò qui in mezzo un privato cittadino, ch’assai più lode di questi dui tanto più merita quanto che la sua continenza fu vie maggiore? Nè di questo altri giudici voglio che tutti voi che qui sète. Ne dice adunque che la famiglia dei Vivaldi ne la città nostra di Genova è sempre stata in bonissima riputazione, e ci sono stati in quella uomini ricchissimi e molto amatori de la patria, tra i quali ci fu messer Francesco Vivaldo negli anni di Cristo mille trecento settantuno, che fu il più ricco cittadino dei tempi suoi e dei passati che fosse in Genova. Costui donò a la Republica del suo patrimonio nove mila lire de la moneta genovese, le quali devesseno multiplicar e di quelle si pagassero i debiti de la Republica, e particolarmente di quella parte che si noma il «capitolo» o sia la «compra del capitolo de la pace», a pagato questo