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novella ii. 29

sia fatto; ecco che di presente vado a metter ad essecuzione quanto mi comanda. – E così alora diligentissimamente fece. E come venne l’ora del desinare, Dario servì di senescalco. Ed assiso che fu il re a tavola, Ariabarzane allegro in vista con gli altri baroni si pose a mensa. La meraviglia di ciascuno fu grandissima; e tra’ baroni, chi lodava il re e chi nel segreto lo chiamava ingrato, sì come è costume de’ cortegiani. Il re teneva tuttavia gli occhi addosso ad Ariabarzane, meravigliandosi pur assai che in sembianza si dimostrasse sì lieto, ed in effetto lo giudicava uomo d’animo generosissimo. E per venir al disegno che fatto già aveva, incominciò con agri motti a mostrar a tutti i suoi baroni una cattiva contentezza ch’aveva d’Ariabarzane. Da l’altra parte, subornò alcuni che spiassero con diligenza ciò ch’egli diceva e operava. Ariabarzane, udendo le parole del suo signore, e stimolato dagli adulatori che a questo erano stati ammaestrati, poi che pur vide non li valer la pazienza che mostrava, nè giovarli la modestia che nel parlare aveva usato, e rammentandosi de la lunga e fedel servitù che fatta al suo re aveva, de’ sofferti danni, de’ perigli de la vita ove per lui posto s’era tante fiate, de l’usate cortesie e d’altre cose assai che fatte aveva, lasciatosi vincer da lo sdegno, perse il freno de la sua pazienza e si lasciò trasportare da la grandezza de l’animo suo, parendoli che invece di dever ricever onore gli fosse biasimato e in luogo di meritar guiderdone gli era il suo ufficio levato, trascorse con agre rampogne a lamentarsi del re e a chiamarlo ingrato, cosa appo i persiani stimata come un delitto de l’offesa maiestà. Volentieri si sarebbe partito da la corte e ridutto a le sue castella; ma questo non gli era lecito senza saputa e congedo del re, e a lui di chieder la licenza non sofferiva il core. Al re da l’altro canto era il tutto apportato che Ariabarzane faceva, e quanto parlava; il perchè fattoselo un giorno chiamare, come egli fu dinanzi al re, così Artaserse gli disse: – Ariabarzane, i tuoi lamenti sparsi, le tue amare querele or quinci or quindi volate, ed il tuo continuo rammarico, per le molte finestre del mio palazzo a l’orecchie mie sono penetrate e m’hanno fatto intender cosa di te ch’io con difficultà ho creduto. Vorrei mo’ saper da te ciò ch’a lamentarti t’ha indutto, che sai che in Persia il querelarsi del suo re, e massimamente il chiamarlo ingrato, non è minor fallo che biasimar i dèi immortali, perchè gli antichi statuti hanno ordinato che i regi a par degli dèi siano riveriti; poi tra i peccati che le nostre leggi acerbamente puniscano, il peccato de l’ingratitudine è pur quello che acerbissimamente è vendicato.