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IL BANDELLO
al dotto giovine
messer cristoforo cerpelio
bresciano
La vostra elegante e latinamente cantata elegia, Cerpelio mio, che, in lode mia composta, m’avete mandata, ho io lietamente ricevuta e con non picciolo mio piacere letta e riletta. E chi è colui che sia cosí stoico ed alieno da le passioni, a cui le proprie lodi sempre non siano care e che con diletto non le senta? Certamente, che io mi creda, nessuno. Quegli stessi filosofi, che nei libri loro essortarono gli uomini a disprezzare la gloria e non si curar de le lodi, andarono con gli scritti loro cercando la gloria e desiderando d’esser lodati. Egli è troppo appetibile e dolce Tesser lodato, e tanto, che non solamente gli uomini, ma bene spesso si sono veduti animali irrazionali, de le lodi che loro erano date, allegrarsi. Non nego adunque che la elegia vostra mirabilmente m’abbia dilettato, anzi liberamente lo confesso. Ed ancora ch’io non conosca esser in me quelle vertuose doti e quelle parti che di me cosí leggiadramente cantate, e porti ferma openione che tale mi predicate quale, amandomi, vorreste ch’io fossi; tuttavia il sentirmi da voi lodare m’è stato molto caro. Onde sommamente vi ringrazio che di me abbiate si buona openione e che a le mie rime volgari attribuiate ciò che a la vostra dotta e polita elegia meritamente si conviene, e vie pili assai che a me. Ma per non parere ch’io voglia rendervi il contracambio di parole, perciò per ora non dirò altro circa essa elegia. Io al presente assai poco attender a le muse posso, per i continovi affari del mio signore. Nondimeno, come io ho modo di rubar alquanto di tempo, mi sforzo pure di tornar