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266 PARTE TERZA padrone con quelli che sapevano la rasa, ebbe tanto spavento che gravemente infermò, e non solo si pelò, lasciandovi la barba e i capelli, ma, come fanno le bisce, vi lasciò anco a poco a poco la pelle e quasi se ne mori. Ebbe in quei di Vittore da sua moglie un figliuolo e per commare prese Filippa, non cessando perciò, sempre che poteva, di giacersi con lei, credendo forse die fosse vero ciò che Tingoccio disse a Meuccio quando in sogno gli apparve. Ora andando la pratica di questa maniera e per Milano non si ragionando d’altro che degli spiriti che in casa di Ferrando si sentivano, vi fu qualche gentiluomo che, sentendo questa baia e sapendo che per innanzi nulla mai s’era sentito dentro quel palagio, cominciò pensare ciò che era in effetto. Onde communicato questo suo pensiero ad un altro gentiluomo suo carissimo compagno, deliberarono mettersi in aguato a quelle parti de la casa ove pareva loro che vi si potesse entrar dentro. Onde una notte, veduto chiaramente venire Vittore con i compagni, che senza maschera ed abito erano, perché in casa si mascheravano, attesero l’uscita loro e gli diedero a dosso a colpi di buone cortellate. E andò cosi la bisogna che Vittore ebbe due ferite, e a uno degli suoi cadde l’abito da mascherarsi, che fu da li gentiluomini assalitori preso. Fu anco stranamente ferito Gabbadio, dandosi fine a la mischia senza che Vittore conoscesse chi l’aveva assalito, né che anco quegli altri conoscessero Vittore. Ma il di seguente, sapendosi come il signore ambasciatore era ferito, vennero i gentiluomini in cognizione de la cosa e la tennero molto segreta. Da l’altra banda, sapendo Vittore che l’abito era perduto, non volle più tenere quella via, non sapendo da chi guardarsi e dubitando di molti. Onde cessò quello romore che gli spiriti facevano, di modo che il buon Ferrando attribuì la cessazione di cosi malvagia tribulazione a le orazioni che ai monasteri di frati e monache faceva fare, che per questo avevano guadagnato di buone pietanze.