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214 PARTE TERZA la Francia c s’accordò con inglesi a danno de' francesi. Essendo poi fatto prigione da esso re Giovanni suo suocero, ammutinò, uscendo di prigione mentre il re era cattivo, e sollevò i parigini contra Carlo delfino — che fu poi Carlo quinto, morto il padre, — e fece di molti mali, non solamente ne l’occisioni che avvennero in Parigi, per'suo mezzo, di quei fedeli che tenevano la parte del delfino, ma per tutta la Francia, ne la quale egli saccheggiò ed abbrusciò molte terre e commise infiniti omicidii. Fu anco ministro di molti inconvenienti sotto il re Carlo quinto e medesimamente sotto Carlo sesto. Nel suo reame di Navarra egli essercitò grandissime crudeltà con rubarie vituperose, con occisioni e con sforzamenti di donne, di maniera che tutti gli volevano male. Ora avendo messo una imposta sovra il suo regno di ducento mila fiorini, si congregarono sessanta dei principali del regno e l’andarono a trovare a Pampaluna, al quale supplicarono che degnasse sminuire la taglia che imposta aveva. Egli subito fe’ mozzar il capo a tre dei principali, mettendo gli altri in carcere con deliberazione fra dui o tre giorni fargli tutti decapitare. Era egli molto vecchio anzi pure decrepito, ma tanto lussurioso ed immerso nei piaceri e appetiti venerei che mai non era senza concubina; ed alora aveva una bellissima giovane di ventidui anni, de la quale era fieramente innamorato. Onde quel di che aveva fatta tagliar la testa ai tre ambasciatori, essendo tutto acceso di grandissima còlerà, per ricrearsi andò a trovar la sua bella innamorata e seco carnalmente in modo si trastullò che, volendo far vie più di quello che a l’età non si conveniva, si senti esser debolissimo. E volendo ricuperare le perdute forze, secondo che altre volte era consueto, si fece porre in una calda camera tra tre gran vasi di rame pieni d’ardenti carboni. Fece pigliar duo lenzuoli tutti molli d’acqua di vita, nei quali, come uno fegato ne la reticella, tutto era involto. E stando involto di quel modo tra quei vasi affocati, alcuni dei suoi servidori con soffioni a torno ai vasi riaccendevano gli infiammati carboni, tuttavia in quelli soffiando. Mentre egli si scaldava, una favilla di fuoco s’apprese ai lenzuoli, e di tal maniera s’accese e crebbe la fiamma che non fu possibile ammorzarla,