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NOVELLA XLIV 469 non palesasse come lo zio quivi entro l’aveva fatto nascondere, gli disse: — Traditore, tu sei morto! — e gli diede de lo stocco nel petto e lo passò di banda in banda. Il misero giovine subito cascò boccone in terra morto. Alora il fellone e traditor conte, rivolto ai consiglieri, disse loro: — Signori miei, sono già più giorni che io m'avvidi del disonesto amore di questo ghiotto gavinello di mio nipote, che ha fatto troppo bella morte, meritando d’esser arso o squartato a coda di cavallo. Ne la signora duchessa io non vo’ porre le mani, sapendo voi che in Piamonte e in Savoia è una legge che ogni donna trovata in adulterio debbia esser arsa, se fra un anno e un di non ritrova campione che combatta per lei. Io scriverò al re suo fratello ed al duca il caso come è seguito. Fra questo mezzo sotto buona guardia la signora duchessa resterà qui in queste camere con le sue damigelle. — Restarono i consiglieri e tutti gli altri attoniti a cosi fiero spettacolo. La duchessa si scusò assai e chiamò Dio e i santi in testimonio come di suo consentimento mai il misero giovine non s’era appiattato sotto il Ietto, ma nulla le valse. Restò adunque la sconsolata duchessa confinata in quella camera. Il disgraziato giovine la marina fu senza pompa funerale sepellito. Gongolava, ebro d’odio, il traditor conte e per messo a posta scrisse al re d’Inghilterra e al duca la cosa come era successa, e volse che i consiglieri in conformità scrivessero. Era la duchessa sovra modo amata da tutti quei popoli, perciò che mai non cercò d’offender persona e a tutti, quanto poteva, giovava; onde del suo infortunio a ciascuno senza fine doleva. E perché quelli de la guardia usavano gran discrezione in lasciar andar dentro ed uscir il medico e non gli mettevano mente, la signora duchessa a poco a poco col mezzo de l’Appiano mandò fuori tutti i suoi danari e gioie che aveva ed ori battuti assai. Le quali tutte cose l’Appiano in casa sua ripuose. Il re e il duca, avute le lettere, a cosi disonesto avviso si trovarono molto di mala voglia. Daya grandissimo credito al fatto ed a l’accusazione del perfido conte l'aver egli il proprio nipote ammazzato, sapendosi quanto l'amava e come per erede suo se l’aveva eletto. Riscrisse il duca al suo governatore ed al Conseglio che l'antica consuetudine del