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NOVELLA XL1X 213 altro sostegno né consolazione alcuna; o vero volendoti conservare mi bisogni quello irrecuperabil tesoro altrui donare per il cui mantenimento ogni donna che punto di giudicio in sé abbia, deverebbe più tosto mille vite, se tante n'avesse, porre a rischio de la morte che perderlo. Perciò che con quello la vita veramente è vita, e a chi lo mantiene giova di vivere; ove per il contrario quella che conservar non lo sa o pazzamente lo perde, se ben vive, non è viva, anzi vie peggio che morta si può chiamare. E per Dio, che cosa di buono, di riguardevole, d'amabile ha la donna di cui l’onor sia macchiato e perduto? Dunque, fratello, tu vuoi che non m’essendo de la eredità dei nostri passati avi altra cosa rimasa ss non l’onestà, che io quella doni altrui, e di fanciulla onesta che fin qui vivuta sono, bagascia vituperosa e donna di volgo divenendo, sia per ogni canto mostrata a dito? Ahi maligna fortuna! o infelice e troppo nociva constellazione ! o sorte avversa ! o miseria di mia vita sottoposta a cosi diverse e varie generazioni di calamità, d’affanni e cordoglio amarissimi ! O Morte crudelissima, per qual cagione, poi che a cosi estremo punto come ora condutta sono mi devevi ridurre, non estìnguesti insieme con la mia carissima madre che al mio nascimento uccidesti, questa mia vita infelicissima e d’ogni miseria albergo? Ma se pure io deveva tanta persecuzion provare, perché non chiudi tu ora, usando alquanto di pietà, questi miei occhi lagninosi? Deh vieni, Morte, vieni e non lasciar ch’io più veggia la luce del sole, ma d’eterna ed oscurissima notte adombra questi occhi che altrui poco diletto e a me infinita amaritudine porgono. — A pena puoté l’afflitta e sconsolata Angelica queste ultime parole proferire, perché da le lagrime abondantissime e pietosi singhiozzi impedita, stette alquanto senza poter formar parola alcuna. Dopoi a la meglio che puoté ripreso alquanto di vigore, in questa maniera a ragionar cominciò: — Ora, fratei mio, poi che a tanta miseria dispone la mia maligna sorte condurmi e veggio che a te di me punto non cale, a cui tanto calere ne deverebbe quanto a me, e che pur disposto sei che io a mal mio grado segua l’animo tuo molto più generoso e nobile che osservante de