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NOVELLA XI. 99 natura e che prima morrai che lasci le puttane e i garzoni, va' pure e vivi a tuo modo, ché mai più non te ne dirò parola, perciò che tutto sarebbe indarno. Io me ne viverò da par mia e farò pensiero non aver marito se_ non per calende, se pur talora mi verrai a trovare. Anderò con le nostre vicine e miei parenti a le chiese e a le feste quando se ne faranno, e mi darò onestamente il meglior tempo che per me si potrà. — Cocco, udite le ragioni de la moglie e gli statuti publicati per la quiete di tutte due le parti, veggendo che ella altro romor non faceva, si tenne per ben avventuroso e parveli che da morte a vita fosse suscitato. Rispose adunque a la moglie che ella ordinasse e facesse tutto quello che più le era a grado, imperò che il tutto sarebbe ottimamente fatto, e che se ella voleva, che egli per pubica scrittura al tutto si obligarebbe. Domicilia tutta allegra disse che non voleva che i fatti loro andassero in bocca al volgo, parendole pur troppo d’aver tirato Cocco come un bufalo a quello che ella voleva. Pensando poi tra sé d’aver deliberato volersi a Petrone sottoporre, ne sentiva un meraviglioso dispiacere e da per sé ne arrossiva. Ma non volendo perciò star ai pasti di cosi scarso marito, dopo non molto s’innamorò d’un gentilissimo giovine, al quale essendo anch’ella piacciuta, di leggero insieme s’accordarono. Ella aveva già preso in casa de le massare e donzelle, e Cocco altresi s’era provvisto di servidori, dei quali Domicilia uno ne elesse per conservatore dei suoi segreti, e a lui manifestò la sua volontà e l’amante che ella amava. Egli bramoso di servir la padrona che già ad una de le sue donne s’era anco scoperta, tenne modo e via che Domicilia col suo innamorato si trovò, il quale era giovine nobile, bello e discreto. E cosi senza che mai Cocco se n’avvedesse, ella col mezzo del servidore e d’una de le sue donne si diede lungamente col suo amante buon tempo, seco stessa molto spesso ridendo de l’astuzia che quella notte usò con i danari contra Petrone e Nardella. ' IL BANDELLO al vertuoso signore il signor RINUCCIO FARNESE Non molto dopo il sacco di Roma fatto dagli spagnuoli e dai tedeschi soldati de l’imperadore, voi vi trovaste con la compagnia vostra di cavalli leggeri, essendo alora ai servigi e al soldo dei signori veneziani, nel contado de la città di Viterbo; ed essendo i caldi molto grandi, ché era del mese di giugno, voi invitaste a desinar con voi il signor Lucio Scipione Attellano ambasciatore del signor duca Francesco Sforza e voleste che di compagnia anch’io vi venissi. Il luogo ove quel giorno ci conduceste fu una freschissima ed agiata stanza tutta intagliata a scarpello dentro un tofo, e dinanzi al luogo v’era un bellissimo e fruttifero oliveto con una viva, fresca e chiara fontana che fuor d’un sasso ivi vicino sorgeva. Quivi adunque trovammo che v’era prima di noi giunto il gentilissimo signor Giorgio Santa Croce, col quale io aveva già contratta lunga e dolce domestichezza quando assediandosi Milano il campo de la lega era a Lambrate