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novella xxii 301

credere ch’ella fosse una putta. Altrimenti a me di continovo parrebbe aver dinanzi agli occhi l’adirata ombra di lei, che fieramente contra me vendetta a Dio sempre gridasse. — A questo piangendo il signor Girondo.subito rispose: — A te, signore, appartiene il comandare ed a me l’ubidire. Io prima per amicizia ti era congiunto; ora per l’ingiuria che fatta ti ho, e che tu come troppo pietoso e leal cavaliere a me perfido e villano cosí cortesemente perdoni, ti resto eternamente servidore e schiavo. — Dette queste parole, ambidui amaramente piangendo s’inginocchiarono innanzi a la sepoltura e con le braccia in croce umilmente l’uno de la sceleraggine fatta e l’altro de la troppa credulitá a Fenicia e a Dio domandarono perdono. Dapoi, rasciugati gli occhi, volle il signor Timbreo che a casa di messer Lionato il signor Girondo seco n’andasse. Andarono dunque di brigata a la casa e trovarono che messer Lionato, che insieme con alcuni suoi parenti aveva desinato, si levava da tavola, il quale, come udí che questi dui cavalieri gli volevano parlare, tutto pieno di meraviglia si fece loro incontro e disse che fossero i benvenuti. I dui cavalieri, come videro messer Lionato con la moglie vestiti di nero, per la crudel rimembranza de la morte di Fenicia cominciarono a piangere e a pena potevano parlare. Ora, fatto recar duo scanni e tutti postosi a sedere, dopo alcuni sospiri e singhiozzi il signore Timbreo, a la presenza di quanti quivi erano, narrò la dolorosa istoria cagione de l’acerbissima ed immatura morte, come credeva, di Fenicia, e insieme col signor Girondo si gettò a terra, chiedendo al padre e a la madre di lei di cosí fatta sceleratezza perdono. Messer Lionato di tenerezza e di gioia piangendo, ambidui amorevolmente abbracciando, perdonò loro ogni ingiuria, ringraziando Iddio che sua figliuola fosse conosciuta innocente. II signor Timbreo, dopo molti ragionamenti, a messer Lionato rivolto gli disse: — Signor padre, poi che la mala sorte non ha voluto che io vi resti genero, come era mio sommo disio, vi prego e quanto piú posso astringo che di me e de le cose mie vogliate prevalervi come se il parentado fosse tra noi seguito, perciò che sempre vi averò in quella riverenza ed osservanza,