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PARTE PRIMA

conducesse in Ispagna col mezzo del mio prode Sillano a far meco amicizia, e poi indutto t’abbia qui in Affrica e te e le cose tue metter ne le mie mani. Ma pensando io qual sia quella vertu che a ciò mosso t’abbia, essendo tu d’Affrica ed io di Europa, tu numida ed io latino e romano di vari e diversi costumi e idioma differentissimi; pensando, dico, che cosa fosse in me che di ricercarmi spinger ti devesse, giudico io fermamente la temperanza e l’astinenza dai piaceri venerei, le quali in me vedute hai e per cui io piú che di cosa che in me sia mi apprezzo e stimo, esser state quelle che ad amarmi ed unirti meco indutto ti abbiano. Queste virtuti vorrei io, Masinissa, che tu a l’altre tue buone doti e ai beni che in te sono da la natura creati e con l’ industria tua fatti megliori aggiungessi. Pensa ben bene che tanto non deve la nostra giovenil etá gli armati esserciti dei nemici temere, quanto le sparse d’ogn’ intorno delicatezze e le voluttuose delettazioni, e massimamente il periglio che a noi sovra sta de le carezze feminili. Onde colui che l’amorose passioni temperatamente affrena o doma e a le lascivie il petto chiude e tra queste sirene con gli orecchi serrati passa, assai maggior gloria acquista che noi acquistato non abbiamo ne la vittoria contra Siface. Annibaie, il maggior nemico che mai avessimo noi romani, uomo fortissimo e capitano quasi senza pari, da le delizie e feminili abbracciamenti d’alcune donne effeminato, non è piú quel virile e gagliardo imperadore che esser soleva. Le cose che in mia lontananza ne la Numidia valorosamente fatte hai, la tua sollecitudine, la prontezza, l’animositá, la fortezza ed il valore, la celeritá e tutte l’altre tue buone parti di vera lode meritevoli, volentieri ricordo e di commendarle mai non mi sazio. Il resto piú caro averò che teco stesso pensi, a ciò che io dicendolo, non ti sia di vergognarti cagione. Come tu sai, Siface è stato dai nostri soldati preso; il perché egli, la moglie, il reame, i campi, le terre, le cittá e gli abitatori, e insomma tutto quello che fu del re Siface è preda del popol romano; e il re e la consorte sua, ben che non fosse cittadina di Cartagine, ben che il padre di lei capitano dei nemici non vedessimo, bisognarebbe mandar a Roma e il tutto a l’arbitrio del