di storia patria che sieno stati
scritti da niun italiano. Scritti, a malgrado i difetti, in istile
ammirabilmente chiaro, largo, vivo, caldo e naturale, si leggono come
una novella da chicchessia dotto od indotto, che è il sommo dell’arte
storica. Difettano sí di scienza storica, e piú di scienza politica, a
tal segno, che non solamente il vecchio liberale, anzi repubblicano,
vi comparisce scrittore scettico, indifferente alle diverse forme di
governo, e non persuaso se non della malvagitá degli uomini e dei tempi
in generale; ma che nell’ultime pagine da lui scritte in conchiusione
della storia dal 1530 al 1789, egli ci lascia quasi un progetto di
governo a modo suo, che non rimane né monarchico né repubblicano, ed
anche meno rappresentativo, ch’ei descrisse ma non intese né ammise.
E quindi l’opere sue contribuirono a mantenere sí, e diffondere, ma
non a determinare le opinioni liberali, anzi le indeterminarono e
dispersero peggio che mai. Una pubblicazione mensile pubblicata per
poco tempo in Milano, proibita poscia dalla polizia, ebbe, s’io non
m’inganno, il medesimo vizio, il medesimo effetto. Vennero poi due
scrittori, de’ quali non credo sia stato mai dacché si scrive niuno
piú amabile, piú simpatico ad ogni cuor gentile, perché niuno scrisse
con piú soavi tinte di gentilezza che questi due, Manzoni e Pellico,
ammirabili e parchi poeti amendue, e scrittori di prosa tanto piú
ammirabili, quanto piú seppero scrivere italianamente con semplicitá.
Manzoni, milanese, s’illustrò con cinque canzoni, che riuscirono nuove
e forse superiori a tutto, dopo il canzoniero accumulato nei sei secoli
della poesia italiana; seguí con alcune tragedie storiche, o come si
diceva allora, romantiche, e con alcune note ad esse ed alle storie
del Sismondi; giunse al suo colmo in quel racconto de’ Promessi sposi, che fu, che diede il genere del romanzo alle lettere nostre,
e lo portò d’un tratto a segno, da superar forse in fatto d’arte, e
certamente in utile morale, quanti furono scritti mai in qualunque
lingua antica e moderna. Pellico, piemontese, era giá amato per la
Francesca, ed altre tragedie, quando, implicato nello scoppio del
1821, fu tratto allo Spielberg, vi rimase intorno a dieci anni, n’uscí
poi per grazia implorata