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delle preponderanze straniere 7


ambiva quel retaggio dei conti di Provenza in Italia, ambiva l’imperio orientale, una gloria da Carlomagno, qualunque gloria. — Finalmente in Germania, signora nostra (di nome per vero dire oramai, ma anche i nomi son pericoli ai deboli), succedeva nel 1493 al misero Federigo III d’Austria Massimiliano prodigo, inquieto, ed egli pure ambizioso. Con tre principi come Ferdinando, Carlo VIII e Massimiliano a capo di tre quarti della cristianitá, non è meraviglia che ella si sconquassasse tutta; è piuttosto miracolo che non ne perisse. E intanto in Italia signoreggiavano, su Savoia e Piemonte, Carlo II, fanciullo d’un anno quando succedette nel 1490; su Monferrato, Gian Francesco II pur fanciullo; su Milano, quasi fanciullo quel giovane ed incapace Gian Galeazzo, che dicemmo sotto la quasi tutela di suo zio Ludovico il moro, e che, avendo sposata nel 1489 Isabella di Napoli, n’aveva acquistata in apparenza una protezione, di fatto un nuovo pericolo, per la gelosia e la paura concepitene dal Moro. In Firenze erano succeduti alla potenza indeterminata di Lorenzo, Piero mediocrissimo che non la sapea tenere, e due fratelli minori, Giovanni, allor cardinale e che fu poi papa Leon X, e Giuliano. E sulla sedia romana, morto il Cibo nel medesimo anno fatale 1492, era succeduto Borgia, Alessandro VI, il peggior papa di questi tempi, ove ne furono pochi buoni. Signoreggiavano ne’ ducati di Ferrara e Modena gli Estensi; in quello d’Urbino, i Montefeltro; i Gonzaga in Mantova; i Bentivoglio in Bologna; i Baglioni in Perugia; i Colonna, gli Orsini ed altri signorotti, in molte terre della Chiesa. In Napoli regnava il perfido e crudele, e cosí diventato potente, ma ora vecchio Ferdinando I, che non seppe scongiurar il pericolo, che morí prima di succombervi nel 1494. Sicilia era del re cattolico. Genova, tenuta come feudo di Francia da Ludovico il moro. E Venezia, giá caduta in quella viltá e stoltezza del volersi tener neutrale ne’ pericoli comuni, isolata. E cessati, con Francesco Sforza e i Piccinini, i grandi condottieri potenti al par di principi e repubbliche, non ne rimanevan guari se non de’ piccoli, impotenti a tutto, salvo che a tener disavvezzi dall’armi i popoli della imbelle Italia.