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— Ci siamo digia? — domandò, toccandosi il cappello.
— Non so. Come ti ho detto dianzi, non ricordo più il numero del villino. Sono tanti anni che non vengo più da queste parti! È più facile ch’io mi orizzonti a piedi, guardando col mio comodo. Tu seguimi a passo. —
Anche se non si fosse trattato di riconoscere una data casa, la signora avrebbe avuto mille ragioni di preferire, alla carrozza, le proprie gambe.
Era una splendida mattina di primavera, una di quelle mattine incantate, tutte azzurro e profumi, quali solamente possono sorridere a Firenze. L’aria era così limpida, il cielo così puro e turchino, che si sarebbero potute contare ad una ad una le verdi foglioline tenerelle di cui erano ricoperti gli alberi del viale. I villini, le palazzette e perfino le case di apparenza più umile, parevano esultare sotto la tepida carezza del bel sole d’oro; per tutto era un gorgheggio, un ronzìo festoso, uno stormire soave di timido vento tra le fronde rinnovellate.