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pensavo al galletto della Lena, alla Tonia, al famoso nastrino rosso, e quelle memorie, dolci e crudeli ad un tempo, mi spremevano dagli occhi amarissime lacrime.

Come Dio volle, si fece giorno. La nostra prigione si schiuse, e due manigoldi, dalla faccia nera come il carbone, ci presero due per due e ci legarono bravamente gli zampini con lo spago.

Poi, come fossimo stati un mazzo di sparagi, ci portarono via col capo all’ingiù e con le gambe nelle loro mani. Il tempo era freddo ma bello.

Le botteghe, tutte accomodate a festa, erano gremite di gente accorsa a far le provviste per il giorno dopo.

Che folla, che confusione, che scampanìo! Gira e rigira, arrivammo finalmente in certe strade sudicie lercie, che sentii battezzare col nome di mercato.

Lì sì, che ce n’era della grazia di Dio! Tanta da far venir l’acquolina in bocca anche al meno ghiotto.

Non ci mancava nulla. Caci freschi, frutta dolcissime, chicche d’ogni maniera, uccellini bell’e pelati, vini scelti e un pollame poi.... da fare innamorar tutti, fuori che me.

— Ma che galletti! ma che be’ capponi! — urlò improvvisamente il mio conduttore, con una vociaccia che mi fece rimescolare.

― O che gli salta per il capo, ora a farci questi elogi? — dissi fra me — ch’e’ sia ammattito?

— Ma le li guardino, signori, che be’ galletti, che be’ capponi! — proseguiva intanto quel traditore.

Capii e fremei. Il ladro metteva in evidenza i no-