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Intanto, ecco sopraggiungere la notte della vigilia di Pasqua, notte lieta per tutti i buoni cristiani, ma per le galline funesta, atroce, orribilissima notte!

L’avvocato, avanti d’andare a letto, col suo berretto bianco in capo, le pantofole in piedi e seguìto dalla Caterina, che teneva la lucernina in mano, si avvicinò alla stia dove stavamo tutt’e tre, non pensando mai e poi mai, a quel che doveva succedere lì per lì.

La mamma e la sorella dormivano saporitamente; io ne facevo le viste, e benchè tenessi il capo nell’ala, vedevo tutto benone. L’avvocato aprì la stia adagio adagio, agguantò la mamma che di nulla sospettava, e presala per il collo, la strangolò per colpa... d’averla trovata troppo grassa.

Avvocato traditore! Se la grassezza era delitto, da quanto tempo non avresti dovuto essere strangolato anche te! Io fremevo; la mia sorella, povera innocente, seguitava a dormire.

Ma quando la mattina all’alba si destò, e contemplò lo spettacolo della madre priva del decoro delle penne e attaccata alla rastrelliera de’ piatti, fu lì lì per isvenirsi, fu per buttarsi nel fuoco (fortuna che a quell’ora era spento) fu per mettersi in ginocchioni davanti al gatto di casa e dirgli:

— Tu che mi hai desiderato tante volte invano, pigliami ora che è il momento. —

Ma pensando poi che il gatto non se lo sarebbe fatto ridir due volte, e sospettandolo anche reo della strage materna, mi disse tremando:

― Lascia che torni la Caterina, e vedrai se mi riuscirà di dirle le mie ragioni. ―