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due, ripiombava dopo in una tristezza a mille doppi più intensa. Una sera, mi ricorderò sempre di quella sera, mancavano pochi giorni a Natale, e in casa c’era stato tutto il dì un gran via vai di gente.

Pioveva dirottamente, e tutti i miei compagni se ne stavano mogi mogi, i più grassi aspettando la morte e gli altri ripensando alla cara famigliuola, da cui sì bruscamente erano stati divisi.

Il povero Cocò era più serio che mai. Invano il gallettino brioso aveva tentato di avvivar la conversazione, invano anch’io m’ero provato a far rider la brigata col racconto di qualche giuccheria; erano fatiche inutili.

Finalmente Cocò, non so se commosso della nostra caritatevole intenzione, ovvero incapace di tener più a lungo chiuso in cuore il tristo segreto della sua mestizia, si decise a raccontarci i suoi casi. Gli facemmo cerchio, ed egli dopo essersi asciugate le lacrime, che fitte fitte gli cascavan sul becco, cominciò così:

― Amici miei, pochi mesi sono io era il più felice pulcino che vivesse sulla faccia della terra. Avevo una mamma e una sorellina che mi adoravano. Dei primi miei padroni non ho alcuna idea, perchè quando fummo regalati al sor Biagio io contavo pochi giorni di vita.

Questo sor Biagio, a quanto pareva allora, era una buona pasta d’uomo; faceva l’avvocato, un certo mestiere, a quello che ho sentito dire, in cui gli uomini s’hanno a sgolar delle ore intere per difendere i ladri, gli assassini e altre personcine simili. Questa era una cosa incoraggiante, perchè se il sor