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de’ pesciolini, lo sciagurato pulcino, già ospite della Marietta, il quale, e il lettore, certo se ne ricorderà, si divertiva a farmi il verso dietro la lastra di cristallo che la vispa mia padroncina mi poneva davanti.
Il briccone, a quanto pare, mi era venuto dietro anche in città; e, cosa più strana ancora, aveva preso domicilio in un certo luogo, il quale, secondo la mia poca pratica del mondo, non era servito mai d’asilo ad alcun pulcino.
— O come va, — dissi fra me — che il signorino garbato è là dentro? chi ce l’ha messo? Come fa a campare?
E allungavo il collo per vederlo meglio; ma il cattivello, secondo la sua trista abitudine, ripetè lo stesso atto, però con un certo fare maligno e stizzoso, da muover proprio rabbia. Io, non più intimorito dalla presenza della padroncina e desideroso d’altra parte di punire la sfacciataggine dello impertinentissimo galletto, me gli avvicinai, sempre più risoluto di dargli un paio di beccate.
Ahimè! nello spenzolarmi mi girò il capino, mi mancarono le gambe, e allorchè credevo di poter sfogare a sazietà il mio biasimevole desiderio, mi trovai bellamente precipitato nell’acqua, mentre che il mio nemico spariva nel fondo della vasca.
Che cosa avvenne di me in quel momento?
E chi se ne ricorda? Il tuffo, il ghiaccio dell’acqua e la paura d’esser bell’e spacciato, mi tolsero ogni sentimento; e se non fosse passata di lì per caso la cameriera, quella per l’appunto che io non potevo vedere per le ragioni note al lettore, di me non se ne parlava più, nè i bambini avrebbero letto mai le Memorie d’un Pulcino.