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come il vento e mi vedevo sparire davanti, senza avere il tempo di guardarli, e campi e alberi e monti.

— Buon Dio! — dissi fra me — che abbia a succedere altrettanto della mia felicità? Povero topo campagnolo, bada veh, che non avevi tutti i torti! —

Per tutta la strada non feci altro che sospirare; fortuna che il signor Albertino non se ne avvide, occupato com’era a discorrere co’ suoi genitori. Ogni tanto, però, mi guardava e mi metteva in bocca certi piccoli pezzetti di biscottini, de’ quali, a quanto pareva, doveva aver piene le tasche.

Ma sì! ci volevano altro che chicche, per consolarmi!

Pensavo sempre alla mamma; e quando un figliuolo pensa alla mamma che è lontana, e che forse piange, come volete che abbia il capo alle ghiottonerie?

Arrivammo al palazzo che era notte fatta; scesi col nuovo mio padroncino in un’anticamera illuminata, e fui consegnato a una donna tutta vestita di nero che insieme a due servitori stava sulla porta a riceverci, o, per meglio dire, a ricevere i signori Dalvi.

Questa, dopo aver consultato la signora Clotilde che sorrideva guardandomi (Alberto cascava dal sonno), mi portò in uno stanzino buio buio e buttatomi in un canto come si farebbe d’un cencio, mi lasciò con questo bel saluto:

— Ci mancavi proprio tu, grullerello, a venire a farci confondere e a insudiciar la casa! Già spero che il girarrosto o il micio ci libereranno presto della tua presenza. —

Come rimasi! Avrei voluto piangere e non po-