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In breve sparirono anch’esse, nè più le vedemmo ricomparire.

Ma era destino che tutto congiurasse ai nostri danni, poichè alle cavallette tennero dietro i termiti. E tanti e sì grossi ne avemmo, che persino le nostre brande ne riboccavano. Le nostre povere carni potevano far fede che i morsi di quegli insetti erano qualche cosa di più acuto che quelli delle zanzare delle nostre maremme; qualche cosa più torturanti che l’effetto della compressione o dello sfregamento delle nostre rughe.

Dormire non era possibile; per cui, anche le ore destinate al riposo dovevamo impiegarle nel dar loro la fuga, accendendo fuochi da una parte delle loro ingegnose catacombe, perchè uscissero dall’altra e s’inducessero a mutar domicilio.

Appena uscivano all’aria aperta, le loro quattro ali spiegavano tosto e svolazzavano per breve tempo; dopo di che si riducevano a terra, ove, per nostra ventura, i famosi formiconi, loro accaniti avversarî, impegnata una lotta mortale, riuscivano a domarli e trascinarli seco nelle loro impenetrabili tane.

Le pioggie venivano accompagnate da violenti commozioni dell’atmosfera; scariche elettriche in quantità, persino un fulmine cadde sul Zadamba, scrostando la montagna, e facendone precipitare i massi giù giù sino al nostro altipiano.

Nè era ancor tutto; anche le lucertole, le vipere, i serpenti vennero ad invadere il nostro territorio.

Un giorno mi trovava montato sul muro del famoso castello, quando fui vivamente colpito dall’apparizione di alcuni serpenti di vario colore e grossezza, per la qual cosa non è a dirsi con quanta fretta cercassi di svignarmela e di riunirmi ai compagni.