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memorie biografiche | 739 |
pratica di abbandonare su la spiaggia di un deserto i marinai sediziosi e di turbolento carattere, era sì generate fra i bucanieri che inventarono per questo castigo una denominazione particolare: marooning a man, cioè trattare un uomo come uno schiavo marone, perchè il castigo di questi schiavi, se non se ne potea trarre miglior partito, era tal genere di esilio e confino. Forse il de Foe ha tratte dai viaggi di Woodes Rogers la particolarità delle due capanne, l’addimesticamento delle capre, il vestirsi delle loro pelli; fors’anche le rape di Alessandro Selkirk gli avranno suggeriti i grani d’orzo di Robinson Crusoe. Pure questi stessi incidenti sono condotti, impinguati, resi sì interessanti dalle aggiunte, che la nuda loro esistenza, così facile a rinvenirsi per ogni dove, non può far pregiudizio al diritto d’originalità dell’autore del Crusoe. Nella totalità infatti, l’ingegno di Robinson è posto a sì moltiplicati ed ardui esperimenti, i suoi conforti sono aumentati di tanto, la sua solitudine sì diversificata, l’indole dei suoi pensieri e delle sue occupazioni esposte con tal copia e nitidezza, che l’intera sua storia abbraccia una serie d’investigazioni su l’umana natura ben al di là di quante potea farne nascere il caso del Selkirk il quale, mancando dei soccorsi e stromenti forniti dai legni naufragati a Robinson, ricade in una specie di stato selvaggio, che poteva dar ben poco campo al dispiegarsi dell’immaginazione. Bensì può notarsi che il de Foe avrà conosciuto della storia del Selkirk tanto quanto dovea bastargli a sapere come le tempestose passioni di quest’uomo fossero state frenate e domate dal lungo periodo della sua solitudine, il che fece che dall’essere un marinaio accattabrighe e dissoluto, dall’essere una specie di Guglielmo Atkins, fosse divenuto, e n’avea ben donde, un uomo assennato, temperante e religioso. Le vie per cui i sentimenti morali e religiosi di Robinson Crusoe si destarono e furono messi ad atto, presentano tratti interessantissimi di quest’opera.
Di mezzo a questi cenni posti senza un determinato ordine può apparire come in tutti i suoi romanzi il de Foe abbia fatto grande sfarzo di narrate cose che dipendeano da fortunati incidenti ed eventualità, a spiegare i quali trovandosi per solito un po’ imbarazzato, per solito ancora ricorreva al definirli decreti della providenza. Ciò si accoppia con la fede delle spirituali comunicazioni fatte per via d’interni presentimenti, fede da cui, come vedemmo, lì nostro de Foe si lasciava trasportare volentieri anzichè no. E veramente strani e maravigliosi incidenti occorrono di frequente nella natura umana; e, quando gli ascoltiamo raccontare, c’interessiamo ad essi non solo per la naturale tendenza delle nostra menti allo straordinario ed al maraviglioso, ma anche per la disposizione insita in noi di aver per vere quelle circostanze che, appunto per la poca loro probabilità, sembrano difficili ad inventarsi. Vuol anche osservarsi come in questi incidenti sia posto quel genere di buona fortuna che ognuno si augurerebbe, perchè venuta senza fatica e nel momento in cui se n’avea più di bisogno; e per conseguenza una tal qual fonte di piacere l’udirsene rammentare la possibilità anche in un favoloso racconto.
La continuazione della storia di Robinson Crusoe, poichè ha acquistato un compagno nel suo servo Venerdì, è men filosofica di quella parte intesa a chiamare le nostra menti verso gli sforzi che può tentare un derelitto solitario per procacciarsi quanti conforti sono sperabili nella malinconica sua posizione e verso tutte le naturali osservazioni che gli vengono suggerite dal progresso del suo intelletto fatto più ingegnoso dalla sventura. Non di meno il carattere di Venerdì è estremamente piacevole, e tutta la successiva storia e quella del bastimento la cui ciurma si ribellò producono alto interesse. Qui, per dir vero, le memorie di Robinson Crosue avrebbero