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memorie biografiche | 737 |
abbiamo tutti i cicalecci dei io dico, io penso, quella lì dice e simili, soliti in sì fatti quistionabili casi a nascere, soprattutto in un villaggio.
Tolta fuori, come l’abbiamo fatto noi, dalle sue cuciture questa leggenda, può del certo apparir troppo ridicola perchè ci si sia nemmeno badato. Ma leggetela, come l’ha posta insieme il de Foe, e converrete che, se la cosa avesse potuto esser vera, sarebbe stata divulgata, nè più nè meno, nel modo ond’egli l’ha resa pubblica. L’avere attemperato il mirabile di una visita soprannaturale al linguaggio delle classi medie o volgari le dà un’aria di verisimiglianza in mezzo alla sua stessa impossibilità. La conversazione tra la sorella d’un collettore delle tasse ed una cucitrice non doveva esser quella tra Bruto e il suo mal genio; e le circostanze della gonnella sconciata, delle chicchere rotte e questi soliti argomenti di dialogo fra le persone di basso ceto, ognun penserebbe che sarebbero l’ultime a presentarsi alla mente dell’inventor d’una favola per farle entrare in una supposta conversazione tra una morta e una viva. In somma, nell’informazione fabbricata dal de Foe tutto è specificato con tal nitidezza che, se il fatto non fosse impossibile o almeno sterminatamente improbabile, questa leggenda non potrebbe non avere per appoggio il massimo dell’evidenza.
L’effetto ne fu maraviglioso oltre ogni dire. L’opera del Drelincourt su la Morte, autenticata da un individuo che potea parlare per esperienza, ebbe uno spaccio superiore ad ogni immaginazione. Gli esemplari di tale opera si erano dianzi ammassati nella bottega dell’editore come mucchi di palle da cannone in un campo. Allora attraversarono la città per tutti i versi, come lanciate dalle bocche dell’artiglieria, e il motivo per cui fu suscitata dalla tomba mistriss Veal raggiunse compiutamente il suo intento.
Un tale accorgimento di cercar nello scrivere tutta la possibile esattezza del vero ha quasi in ciascun caso una virtù tutta sua propria. Così ammiriamo le pitture di alcuni artisti fiamminghi, nelle quali, benchè i soggetti dipinti sieno triviali, schifosi e fin tali che non vorremmo certo nè studiarli nè vederli da vicino in natura, pure la maestria con cui ne vengono presentati dal pittore compartisce ad essi, quando sono imitati su la tela, un vezzo di cui non solo manca, ma è l’assoluta antitesi l’originale. D’altra parte poi, se questa attitudine a rendere la perfetta, specificata, ignuda verità viene applicata ad oggetti che ansiosamente desideriamo vedere nella propria loro forma e sotto i propri loro colori, proviamo un doppio genere di diletto: quello che deriva dalla maestria dell’artista e l’altro prodotto dalla nostra simpatia al soggetto rappresentato. Lo stile di probabilità onde il de Foe vestì i suoi racconti fu forse mal impiegato, o piuttosto mandato a male in alcuni dei dipinti che s’avvisò presentare; ne arriverà mai a raccomandarne i soggetti della Moll Flanders e del Colonnello Jack; mentre la stessa maestria su la deliziosa storia di Robinson Crusoe ha tal luce d’inimitabile verità che non avremmo giammai creduto possibile il vederla congiunta con una posizione simile a quella da lui assegnata al suo eroe. Tutti gl’impalcamenti e macchine soliti a mettersi in opera dai compositori di storie finte si vedono accuratamente respinti dal de Foe. I primi incidenti della sua novella che, nelle solite opere d’invenzione, vengono per lo più messi innanzi come caviglie cui s’attacchi in appresso la fine, sono appena toccati in principio, poi lasciati andare sì che li perdiamo affatto di vista. Non udiamo per esempio dir più una parola di quel fratello primogenito di Robinson che dalla prima pagina della sua storia sappiamo essere entrato colonnello nel reggimento dragoni Lockard e che, in tutt’altro romanzo, avremmo