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memorie biografiche 727

«Io era allora, per una grazia speciale del re, chiamato ai consigli di guerra essendo assente ed infermo mio padre, e cominciai fin da quel tempo a meditare quali fossero i reali fondamenti di questa guerra e a prevedere, quel che è più, il fatal esito ch’essa poteva sortire. Ho detto cominciai, perchè non posso dire d’aver mai prima di questo momento avuta un’opinione su ciò, benchè fossi stato abbastanza avvezzo a vedere e spargimenti di sangue ed esterminio di popolazioni e saccheggio di città e devastazione di campagne; ma sentiva depresso il mio spirito da una insolita tristezza segreta, una tristezza che non vi so esprimere, al riflettere che questi atti si commettevano nel mio nativo paese. Mi doleva all’anima, anche nella sconfitta de’ nostri nemici, il vederne la strage, e in mezzo alla stessa battaglia l’udire un uomo domandar quartiere in inglese mi moveva a tal compassione come se uno dei nostri fosse in quella medesima circostanza; e quando udiva un soldato gridare: Oh Dio! son ferito, guardava dietro di me per vedere chi della nostra banda fosse soggiaciuto. Qui mi vedeva sempre esposto a tagliare il collo di qualche mio amico e da vero anche di qualche mio parente. Alcuni de’ miei antichi camerati e fratelli d’armi nelle guerre della Germania, erano alcuni con noi, altri contra, secondo che il caso li portava ad avere, o no, opinioni religiose comuni con noi. Quanto a me, devo confessare che non aveva gran religione in allora; pur pensava che, se la religione fosse stata praticata da entrambi i lati, avrebbe finito col renderci tutti amici.

La Storia della gran peste di Londra spetta a tal classe di componimento che tiene il mezzo tra il romanzo e la storia. Certamente il de Foe impinguò la sua opera di quante tradizioni potè leggere su quel flagello e di quante potè raccogliere da chi ne fu spettatore. Il soggetto è orrido al punto di generare fastidio; pure se Daniele de Foe non fosse stato l’autore del Robinson, sarebbe bastato ad assicurargli l’immortalità il genio che dispiegò così nella Gran Peste, come nelle Memorie dell’uficiale di cavalleria. Quest’orrido flagello che nel linguaggio della scrittura può essere denominato la Pestilenza che cammina colle tenebre, la distruzione che miete in pieno meriggio, fu veramente un soggetto adatto ad un pennello così verace siccome quello del de Foe. La sordida verità delle pitture è spinta al segno di farne abbrividire.

È cosa da stupire come al de Foe così tenero di soggetti d’un carattere popolare sia sfuggito il grande incendio di Londra, argomento sì degno di esercitare la pittoresca sua immaginazione. Nondimeno possiamo appena dolercene perchè, oltre ai versi del Dryden nell’Annus mirabilis, due racconti lasciatine da due contemporanei, Evetyn e Pepys hanno tratteggiata quella calamità in tutto il formidabile suo splendore.

La grande tempesta che nel 20 novembre del 1703 passò, giusta la frase dell’Addisson, su la pallida Bretagna, fu còlta dal de Foe come un soggetto opportuno alle prove del suo poter descrittivo. Ma l’opera da lui pubblicata sotto questo titolo, si compone in gran parte di lettere venutegli dalla campagna e meschini idilli, perchè il de Foe fu solamente poeta in prosa; or simile mercanzia, buona unicamente a far su libri come Dio vuole, non dà al genio dell’autore quel risalto che dai precedenti suoi lavori gli è derivato.

Una quarta specie di componimenti per cui questo autore proteiforme mostrò una forte predilezione, furono quelli cui prestavano argomento la teurgia, la magia, le apparizioni di spiriti, la demonologia e ogni genere di scienze occulte. Il de Foe si