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554 | robinson crusoe |
e in una condizione sempre più orrida che per lo innanzi; se la mia padrona si fosse in quel momento trovata morta, son certa che, ad onta del mio tenerissimo amore per essa, avrei mangiato un brano delle sue carni con quell’appetito e indifferenza onde si mangia ogn’altra carne atta a mangiarsi. Una o due volte mi sentii spinta a lacerarmi coi denti la carne delle mie braccia. Finalmente, avvedutami del bacino ove stava il sangue sgorgatomi dal naso il dì innanzi, vi corsi precipitosa e trangugiai quel sangue subitamente e con ingorda avidità come se mi fossi maravigliata ch’altri non m’avessero prevenuta e temessi che qualcuno venisse a portarmi via tal genere di pietanza. Ne inorridii di poi; nondimeno ciò valse a sedare alquanto gl’impeti della mia fame; indi bevuta un’altra tazza d’acqua, mi sentii calma e ristorata per alcune ore.
«Queste cose eran avvenute nel quarto giorno in cui stetti men male fin verso la notte. Allora nel giro di tre ore provai una dopo l’altra tutte quelle dolorose sensazioni cui era soggiaciuta dianzi; vale a dire il parossismo della febbre, il sonnecchiare, i dolori strazianti dello stomaco, poi la voracità, di nuovo la nausea, la frenesia, il pianto e la voracità un’altra volta, e così in ciascun quarto d’ora: orrida vicenda che stremò le mie forze oltre ogni misura; mi gettai finalmente sul letto senz’altro conforto che la speranza di non esser viva nella successiva mattina.
«In tutta questa notte non presi sonno; perchè la mia fame si era trasformata in una colica tormentosa prodotta dall’aria che in vece del cibo avea trovata la via ne’ miei intestini. In tale stato penai fino a giorno, allorchè mi sorpresero i pianti e la disperazione del mio giovine padrone, il quale veniva a dirmi che sua madre era morta. Mi alzai un poco a sedere sul letto, perchè la mia debolezza non mi permetteva d’alzarmi; vidi per altro che la mia padrona vivea tuttavia, benchè desse soltanto tenuissimi segni di vita.
«Le nuove convulsioni dappoi al mio stomaco derivate da questa continuata mancanza d’ogni alimento, furono tali che non valgo a descriverle. Gli spasimi, le angosce della fame che provai possono soltanto essere paragonate con l’agonia della morte. Io era in tal posizione quando udii i piloti che stavano sul piano superiore alla mia stanza gridare: Una vela! una vela! e urlare e far salti come se fossero impazziti.
«Io non era buona d’alzarmi dal mio letto, e molto meno la mia