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non patti che mi vincolassero: io poteva costruire o abbattere a mio piacimento; gli alberi ch’io piantava mi appartenevano; i miglioramenti ch’io faceva andavano alla mia famiglia; abbandonata ogni idea di vagare attorno, la vita non avea sconforti per me in questo mondo. Da vero io credeva ora di godere quel mezzano stato della vita che il padre mio raccomandavami con tanto fervore: specie di celeste vita somigliante a quella descritta dal poeta per la vita campestre:

Scevra di vizi, di rimorso e affanni,
     Ai disagi non è vecchiezza in preda,
     Non gioventude a seducenti inganni.

Ma in mezzo a tanta felicità, un colpo non preveduto del destino venne a confondermi tutto ad un tratto, nè solamente mi fece una ferita inevitabile ed incurabile, ma con le sue conseguenze mi fe’ ricadere nelle mie antiche propensioni a vagare pel mondo: male, come ho detto, che io aveva nell’osso. Questo ritornò ad abbrancarmi, e, siccome la recidiva d’una violenta malattia, piombò su me con tale irrestibile forza, che niun’altra impressione me ne poteva omai liberare. Questo colpo fu la morte di mia moglie.

Non intendo qui di comporre un’elegia ad onore di essa, non di descrivere le sue particolari virtù, non di far la corte al bel sesso col tesserle un’orazione funebre. Essa era, in una parola, il perno di tutti i miei affari, il centro di tutte le mie imprese; la prudenza di lei era il solo regolatore che mi manteneva in quel fortunato equilibrio a me sì necessario per non ricadere negli stravaganti e rovinosi disegni fra cui la mia mente ondeggiava. Ella valeva a governare i miei fantastici ghiribizzi meglio di quanto avessero potuto le lagrime di una madre, i consigli paterni, quelli d’un amico o la facoltà della mia ragione. Io che mi tenea fortunato nel lasciarmi vincere dalle sue lagrime, nell’arrendermi alle sue preghiere, non vi so dire a qual grado mi trovassi derelitto e sbalestrato sopra la terra dopo averla perduta.


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