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166 | robinson crusoe |
vi si fermasse la pioggia. Dopo ciò mi feci un corredo di vestiti tutti di pelle, vale a dire una casacca ed un paio di brache aperte al ginocchio, perchè bisognava mi riparassero piuttosto dal caldo che dal fresco. È mio obbligo il confessare che questi vestiti erano empiamente fatti, perchè se era un cattivo falegname, era anche un sarto peggiore. Pure quali gli aveva fatti, mi giovarono assai, e se veniva a piovere quando andava attorno, il pelo della mia casacca e del mio berrettone, ricevendo esso l’acqua, facea ch’io me ne tornassi a casa perfettamente asciutto.
Impiegai ancora molto tempo per provvedermi tal cosa di cui sentiva un forte bisogno, e che da lungo tempo io divisava farmi con le mie mani: un ombrello. Io avea già veduto fabbricare di questi arnesi al Brasile, ove sono d’un massimo uso per gli eccessivi calori che sono colà; nè da vero m’accorgeva che fossero niente minori, anzi più gagliardi erano in questa spiaggia più prossima all’equatore; oltrechè, essendo io obbligato ad essere spesso in giro, m’avrebbe giovato molto per ripararmi così dal caldo come dalle piogge. Non saprei dire quanti disturbi mi diede un tale lavoro, e quanto tempo ci volle prima di arrivare a far qualche cosa che avesse garbo d’ombrello; v’è di peggio: allorchè immaginai d’avere finalmente colto nel segno, mi convenne guastarne due o tre perchè non andavano mai a mio modo. Quando Dio volle, me ne venne fatto uno che alcun poco mi si conveniva; la maggiore difficoltà ch’io trovassi stava nel farlo tale da poterlo chiudere. Fino a tenerlo disteso ci arrivava, ma se non poteva e spiegarlo e chiuderlo, non mi serviva più ed io voleva che mi servisse. In somma giunto, come ho detto, a farmene uno sufficientemente buono al mio scopo, lo copersi di pelle col pelo all’infuori; per tal modo parava da me l’acqua a guisa d’una grondaia, e mi difendeva sì efficacemente dal sole che poteva nella stagione più calda camminare attorno con maggior conforto di quanto avessi fatto dianzi nella più fresca. Se non aveva bisogno del mio arnese, me lo poneva, chiudendolo, sotto il braccio.
Così io conduceva assai piacevolmente la vita, avendo assuefatto perfettamente il mio animo a rassegnarmi ai voleri della divina provvidenza, nelle braccia della quale io mi era posto interamente. Ciò mi rendeva il vivere migliore che se fossi stato in società; perchè ogni qualvolta mi sentiva tentato ad augurarmela, chiedeva a me stesso se il conversare co’ miei propri pensieri e, come spero d’aver