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Era or venuta la piovosa stagione dell’equinozio di autunno. Il 30 settembre, giorno del mio arrivo nell’isola, fu da me festeggiato con la stessa solennità dell’anno scorso. Correa già il secondo anno da che io mi trovava qui, nè aveva migliori speranze d’uscirne ch’io non ebbi nel primo giorno. Impiegai l’intera giornata in umili affettuosi ringraziamenti al Signore per tanti prodigi di misericordia versati su la mia solitudine, prodigi senza de’ quali essa sarebbe stata infinitamente più miserabile. I più fervorosi di questi rendimenti di grazie si riferivano all’avermi egli scoperta la possibilità di essere anche in questo deserto più felice che non sarei stato in seno ai godimenti della società ed a tutti i piaceri del mondo. Egli avea fatti colmi e il vuoto della solitudine e la privazione d’ogni consorzio di uomini col comunicare all’anima mia i doni della sua grazia, col sostenermi, confortarmi, incoraggiarmi a porre ogni fiducia nella sua provvidenza quaggiù, ogni speranza nella sua eterna presenza per l’avvenire.

In questo punto cominciai veramente a sentire quanto fosse più felice la vita da me condotta ora, anche accompagnata da tutte le sue deplorabilissime condizioni, che non quella perversa, esecrata, abbominevole, vissuta in tutto il precedente intervallo de’ giorni miei: in questo punto si cangiarono affatto i miei contenti e i miei crucci; le mie brame si fecero diverse, le mie affezioni mutarono scopo, i miei diletti erano tutt’altro da quel che furono all’atto del mio primo arrivo, ed anzi per tutto il tempo de’ due scorsi anni.

Per l’addietro, s’io mi diportava o per cacciare o per iscoprire paese, l’angoscia della mia anima travagliata dalla considerazione di sì misero stato scoppiava in me d’improvviso, e mi sentiva lacerare il cuore pensando alle foreste, alle montagne, ai deserti tra cui andava vagando, tra cui era prigioniero, racchiuso dall’eterne sbarre dell’oceano, in un deserto il più tristo, senza speranza di riscatto. Nei momenti anche di maggior calma della mia mente quest’angoscia vi prorompeva a guisa d’orrida burrasca, mi costringeva a contorcermi le mani, a piangere come un fanciullo; talvolta essa mi sorprendeva tra i miei lavori, sì che io mi lasciava cadere seduto, e sospirava e guardava fiso la terra per una o due ore continue: e ciò era anche peggio per me; perchè se avessi potuto alleviarmi col pianto o dar varco al dolore con le parole, questo sarebbe svanito, o almeno, esausto dal ripeterne gli accenti, si sarebbe mitigato.