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del conte monaldo leopardi 71

Quell’ubriacone del volgo ottenne fede come un profeta, e torme numerose di gente nostra corse a Loreto coi piedi nudi per ringraziare la Vergine beatissima di quel prodigio, che la Sapienza divina non aveva giudicato bene di operare. Altri corsero in queste chiese a cantare il Te Deum.

Fratanto si era saputo con certezza essere entrati i Francesi in Loreto, e si trovò necessario di spedire una deputazione colà, per trattarvi alla meglio le cose nostre come avevano fatto tutti gli altri paesi. I deputati di Macerata erano già qui ed aspettavano il nostro ritorno per regolarsi. Venimmo destinati a questa missione il sig. Tomasso Massucci, il conte Xaverio Broglio, il conte Luigi Gatti, ed io, ma quando sull’Ave Maria, si fu a partire, il popolo che non voleva patti coi Francesi si sollevò, si armò, e si oppose al nostro passaggio. Scesi di carrozza al trivio di Sant’Agostino, e un po’ con le carezze un po’ col denaro mi riuscì di calmare la plebe, e rimandarla a casa. Ricordo che distribuii una saccocciata intiera di papetti, e conobbi che il danaro è onnipotente col volgo. Camin facendo incontrammo in copia le genti nostre le quali tornavano illuminate nell’inesistenza del miracolo, e calmate assai nel proposito dei Francesi perchè avendo mangiato, e bevuto con essi alle osterie, si erano accorti che non divoravano gli uomini, e non tagliavano la testa a tutti. Dicevano, credevamo peggio, son uomini come noi. Si raccomandò a questa gente di tenere il paese tranquillo e si andò avanti. Lungo la strada stavano posti di cavalleria francese con fuochi accesi, ma veruno ci interrogò. In Loreto l’uffiziale che comandava quella colonna ci interrogò sulla tranquillità del paese, e soggiunse che le sue truppe venivano per liberarci dalla tirannia e donarci libertà. Sapevamo bene qual sorta di libertà donavano i Francesi della rivoluzione. Rispondemmo tutto essere tranquillo fra noi, e noi accostumati ad obbe-