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del conte monaldo leopardi 65

dizio piuttosto che il mio volere. Considerai che le cose dello Stato erano perdute e il sagrifizio di un povero ragazzo non le avrebbe salvate; riflettei che la Religione e l’onore non imponevano il morire senza profitto, e risolvei che mio fratello non partirebbe. Egli ne restò desolato e voleva marciare a tutti i patti, ma dovè cedere al volere degli altri. Montato in una carrozza andai di volo a incontrare il cavaliere Borgia, e lo incontrai alla testa del suo squadrone nel piano di San Leopardo. Gli feci conoscere trovarsi il mio fratello fresco di male, durare tuttora il suo permesso di assenza, essergli mancati il tempo e il modo per istruirsi alquanto nel suo nuovo mestiero, non avere nè equipaggio nè cavalli che si erano perduti probabilmente nello scontro di Faenza, e insomma essere inutile ed impossibile che egli marciasse col corpo. Quel comandante fece alcune difficoltà, forse per salvare una certa apparenza, ma poi si accordò di lasciarlo in pace purchè io nel nome del fratello rinunziassi il servizio, e promettessi in dono al corpo due belli cavalli da tiro che si consegnerebbero nel giorno seguente ad un altro squadrone nel suo passaggio. Non so come quel signor comandante potesse esigere la dimissione del mio fratello, e li due cavalli miei, ma so che acconsentii a tutto lietamente, e il cavaliere Borgia scese un momento in casa Melchiorri per averne da me obbligazione scritta che rilasciai. Tornato a casa con questa conclusione rallegrai la cara mia Madre, e tutta la Famiglia, e darei oggi cento cavalli per potermi ricordare di avere procurata a mia Madre un’altra compiacenza simile. Mio fratello bensì ne restò afflitto sdegnato e mortificato, quasi denigrato nell’onore, e andò a nascondere nelle soffitte tutti gli ornamenti e distintivi militari dei quali ormai si riputava indegno. Astrattamente diceva bene, ma in quello stato concreto di cose disperatissime, io gli salvai la vita, ed egli non mancò