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tante circa seimila scudi. Ma tutto questo era niente. In quel tempo nello Stato nostro non correva un paolo di oro o di argento, e si vedevano solamente cedole e moneta erosa che nel cambio con i metalli fini perdevano smisuratamente. Io dovetti pagare tutta quella somma in oro e argento, e si può immaginare con quanta perdita. Ne darò solamente un saggio. Un tale mi diede a cambio al sei per cento mille oncie di argento lavorato, che vendei per novecento scudi, ed io mi sottoscrissi debitore di scudi cinque mila. Per le leggi successive quella somma venne ridotta dalle cedole alla moneta erosa e da questa alla moneta di argento con qualche diminuzione; ma in sostanza per estinguere il debito originario delle oncie mille di argento vendute 900 scudi, pagai 2,600 scudi o piastre di argento a titolo di sorte, e poi li frutti di molti anni, prima al sei, poi all’otto e finalmente al dieci per cento. Gli altri debiti vennero contratti poco più poco meno allo stesso saggio, talmentechè le sorti complessive di tutti quei debiti ascesero certamente a dodici o quindici mila scudi. Si aggiungano i frutti rigorosissimi pagati per molti anni, e ognun vedrà che il trattato infausto di Bologna mi costò più di ventimila scudi 0 piastre romane. Tanto è vero che di un facile errore si portano alle volte asprissime penitenze. Ma lasciamo questi argomenti melanconici, e passiamo a narrare di altre vicende.

XXXII.

Battaglia di Faenza.

Venuto a Roma il generale austriaco Colli per dirigere la difesa di questo Stato, avrà conosciuta senza meno la impossibilità di sostenerlo con un pugno di gente senza