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del conte monaldo leopardi 43

già una scelta mano di congiunti e di amici e mancava solo la giovane. Io compivo allora venti anni, avevo molta voglia di prender moglie, ero persuaso in molto vantaggio della dama propostami, ero legato dalle cortesie che mi venivano usate, e mi sonavano all’orecchio le prediche dell’amico. Il cuore mi batteva e la mano stava sul fazzoletto per cavarlo senza ritardo. Ecco la sposa. Un inchino, due parole, un’occhiata, e il fazzoletto è fuori. Gatti dice alla giovane qualche cosa all’orecchio, e poi tutti, Viva gli sposi, bravo conte Gatti, quanto siete di spirito, quanto sapete far bene, e il matrimonio rimane concluso così.

Il giorno e la sera rividi la sposa ed esaminando me stesso pacatamente conobbi che gli argomenti del conte Gatti non avevano persuaso il mio cuore e che il fazzoletto si era cavato fuori con troppa precipitazione. La damina non aveva difetti, e il partito era tanto decoroso e conveniente per ogni parte, che se io mi fossi trovato in quell’emergente nella età di venticinque o trent’anni non avrei avuto che replicare, ma di venti anni, e con la testa piena degli entusiasmi amorosi che avevo letti nei romanzi e volevo sperimentare in me stesso, quelle nozze non facevano al caso mio. La sposa aveva qualche anno più di me, la sua calma non combinava con la mia vivacità, trovavo in lei quelle qualità che meritano stima e rispetto ma non quelle che possono appagare il capriccio della gioventù, e in somma mi pareva che il decreto della nostra unione non fosse scritto in cielo. Caddi dunque nella più tetra malinconia e quasi nella disperazione perchè se conoscevo la necessità d’interrompere questo trattato, sentivo pure la difficoltà di farlo senza sdegno del parentado e senza disdoro mio, e mi cuoceva l’offesa della giovane, e sopra tutto delicatissimo in punto di onore, sarei morto piuttosto che me-