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del conte monaldo leopardi 113

dicendo ad alta voce che in tempo di guerra bisognavano Magistrati armigeri, e coraggiosi, ed io pauroso e gracile non ero al caso, ma insorse il sig. Alessandro Condulmari e gridò, voi accudirete al Governo, e alle bisogne delle armi penserò io. Questo cavaliere era molto onesto, ma senza talenti e senza condotta; ed essendosi compromesso esercitando le cariche della Republica intendeva di riacquistare l’aura popolare con quella imprudenza. Volere dunque o non volere bisognò assumere le funzioni di Governatore, ma per la età che avevo allora non mi trovo scontento del modo in cui mi condussi. Con le buone e con le cattive si compressero le reazioni le vendette e le infamie del popolo. Gli tolsi di mano tutti quelli dei quali voleva lo sterminio assicurandone altri in casa mia, altri nel Palazzo Municipale, ed altri momentaneamente nelle prigioni. In quel fermento una mia parola, e uno sbaglio mio avrebbero provocata una strage, ma tutti furono salvi; non si sparse una goccia di sangue, e gli uomini più odiati, e più compromessi pagarono con la sola paura. Potrei nominarne molti vivi e defonti che mi doverono la vita, ma restino tutti in pace. Io stesso la arrischiai per salvare l’avvocato Vincenzo Gentili, uomo onestissimo e di sani principii, il quale però era Pretore nella Republica, e per questo, e per interessi privati soffriva l’odio di molti. Una turma di briganti aveva empita la casa sua, e lo strascinava al macello. Io vi penetrai, e la palla di un fucile sparato non so da chi in mezzo alla folla mi passò vicino alla testa. Nulladimeno lo trassi da quelle mani, e lo condussi a salute nel Palazzo del Comune. In quel giorno e in quella sera mio fratello fu sempre con me e mi secondò utilmente, e cordialissimamente.

Alla mezza notte, restando il paese tranquillo bastantemente, andai a dormire, ma allo spuntare del giorno 17 un piccolo colpo dato alla porta da mio fratello, mi svegliò: