Pagina:Atti del parlamento italiano (1861).djvu/28


– 546 –

camera dei deputati -- sessione del 1861


presidente. La facoltà di parlare spetta al deputato Pettinengo per un fatto personale.

di pettinengo. Io non sono oratore; è questa la prima volta che prendo a parlare in quest’aula; mi trema la voce, non il cuore; sono soldato, e come soldato desidero di parlare in questo momento.

Mi duole assai di non vedere al suo posto il deputato Petruccelli; il quale pronunziò parole che mi hanno.....

presidente. Se vuol parlare per un fatto personale, per cui potesse avere spiegazioni dal deputato Petruccelli, è meglio ch’aspetti che sia presente.

di pettinengo. È probabile che sia nelle sale attigue; pregherei perciò il signor presidente di farlo chiamare.

san severino. Domando la parola per fare un’interpellanza. (Entra il deputato Petruccelli)

presidente. Il deputato Di Pettinengo può continuare.

di pettinengo. Se bene ho inteso (e se il mio udito m’indusse in errore, accetto volontieri la rettificazione), parmi che, annoverando le varie opere provvidenziali che può contare il glorioso nostro Re, egli abbia pur detto che fu provvidenza del Re l’armata francese a San Martino. Prego il deputato Petruccelli a dirmi se abbia espresso questa idea.

petruccelli Ho detto che una provvidenza del Re fu l’armata italiana, che per cinque volte andò all’assalto contro il nemico a San Martino.

di pettinengo. Ha detto questo?

petruccelli. Sì.

di pettinengo. Io, a nome dei combattenti che con me salirono cinque volte il colle disputato, la ringrazio, dichiarandomi soddisfatto. (Applausi)

presidente. Il deputato Varese ha facoltà di parlare.

varese. Per mio conto dichiaro, e non per fare il bravaccio o lo spirito forte, ma per sentimento di convenienza e di franchezza, che vorrei che questa formola: Re per la grazia di Dio, la quale vanta novecento anni d’età, appunto quanti Matusalem, non fosse stata scovata fuori oggi, e rimessa in fiocchi, per un Re, il quale ha pur ora tirato un frego così vigoroso sulla grazia di Dio di tre o quattro principi e di un altro re. (Si ride)

Io ricordo che la formola ha un’origine più che sospetta; ricordo che ha degli antecedenti infausti e pericolosi; ricordo da chi fu inventata e perchè fu inventata, e all’ultimo parmi che o non dica nulla o dica appunto tutto il contrario di quello che le si vorrebbe far dire.

Ho detto che la formola fu inventata, non credesse taluno che l’abbia assunta spontaneamente un qualche principe devoto per atto di religione. Quando fu imposta la prima volta da Zaccaria a Peppino d’Austrasia, la formola aveva anche un po’ di giunta; la formola diceva: Re per la grazia di Dio e della Santa Sede apostolica.

Peppino aveva le sue buone ragioni per non dire di no; Peppino aveva allora usurpata la corona dei Franchi e non gli pareva vero di veder sanzionata la usurpazione a così buon mercato.

Dopo Zaccaria, Leon III la puntellava sacrando Carlo Magno imperador d’occidente, per ottenerne in compenso la prima fatal donazione, che non ebbe mai effetto; e la prima, checchè ci dicano della donazione di Costantino che non se l’è mai sognata.

Da quel giorno non vi fu chierico nella Chiesa romana il quale non si persuadesse, non credesse fermamente che il suo vescovo era il padrone assoluto, il legittimo distributore di tutte le corone del mondo.

La formola fu fatta valere nella sua integrità fino a tanto
che un qualche principe, non so chi, ma certo un principe che non si trovava nelle condizioni stesse di Peppino e di Carlo Magno, e che si sentiva forte sulle staffe, ha creduto far atto di grande indipendenza intitolandosi semplicemente Re per la grazia di Dio; e lo era atto d’indipendenza, perchè intendeva a stabilire la massima fatta valere e messa innanzi tante volte poi, che cioè i re delle opere loro non dovevano render conto a nessuno, fuorchè a Dio. In una parola hanno bravamente confuso la grazia col diritto.

I pontefici sulle prime se ne mostrarono grandemente alterati; ma poi si acquetarono: si acquetarono o per la necessità, o perchè hanno capito, si sono lusingati che, alla fin dei conti, della grazia di Dio, su questa terra, il monopolio lo avrebbero sempre avuto loro.

Voi vedete dunque che allora la formola aveva un senso, anzi due sensi: permetteva ai re, quand’erano i più forti, di non riconoscere altro freno, altra podestà superiore che quella di Dio, cioè nessuna; e permetteva ai papi, quando avevano il coltello pel manico, di dare e di togliere le corone; e assai altre cose permetteva loro. Permetteva, per esempio, a Gregorio VII di far aspettare Enrico IV della casa di Franconia nel cortile della rocca di Canossa, durante tre giorni, digiuno, in camicia, coi piedi nudi nella neve; e più di sei cent’anni poi permetteva ancora a Clemente VIII d’imporre ad Enrico IV di Francia, che riceverebbe l’assoluzione da monsignor legato, nelle forme ordinarie. E vi ricordate voi quali erano le forme ordinarie? Le forme ordinarie importavano che il buon re Enrico, coricato boccone, colla pancia in giù, sarebbe stato bellamente frustato come un ragazzo indisciplinato e cattivo. E qui, lasciatemi soggiungere per incidenza, che Enrico IV otteneva a stento che l’assoluzione a quel modo, nelle forme ordinarie, l’avrebbe ricevuta per lui uno dei suoi ministri. (Ilarità)

Io son ben lontano dal voler attribuire alla grazia di Dio dei nostri giorni la virtù stessa che aveva allora. Le parole mutan senso; s’è scritto un libro sulla loro fortuna; il senso primitivo si modifica o si perde. Ma il senso primitivo di certe parole Roma lo chiude negli archivi con sette chiavi, e aspetta. E, se venissero certi tempi che molti rimpiangono, invocano e sperano; se, come dice Giusti, tornasse un secolo agli arrosti propizio, credete voi che degl’Ildebrandi e degli Aldobrandini non se ne troverebbero ancora? Rileggete l’ultima allocuzione di Sua Santità, e vedrete in quali disposizioni, oggi, in tanta luce, in tanto incremento di civiltà e di tolleranza, in quali disposizioni, dico, si trovi ancora al dì d’oggi la corte di Roma.

Ma, voi ci dite, è un omaggio che si presta a Dio; è per proclamare che riconosciamo da lui il gran miracolo della nostra risurrezione.

Sta bene; però... facciamo ad intenderci.

Volete voi significare che Dio, per una sua grazia speciale, ha dato oggi la corona d’Italia a Vittorio Emanuele? Che Dio, essendosi accorto che i principi, i quali erano già insigniti della sua grazia spartita in cinque, se ne mostravano indegni, ne abusavano, gliel’ha loro oggi ritirata per accumularla tutta sulla testa di Re Vittorio? Scusate, sarebbe una facezia; Roma dirà ch’è un’ironia, ch’è un epigramma, una bestemmia; che la grazia di Dio non è versatile. Roma dirà, e lo ha già detto, che è come se un lupo si pigliasse nell’ovile un grasso agnello, e, mentre se lo divora a colezione, si vantasse di averlo avuto dalla grazia di Dio. Gran superbia è la nostra di far sempre intervenire la Divinità nelle miserabili faccende di questo mondo! (Bene!)

E lasciamola lì, ch’io non voglio entrare in quistioni teolo-