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tornata del 16 aprile


Un’identica tendenza verso la Dinastia si manifesta contemporaneamente nelle popolazioni italiane. Uno dei più eruditi nostri scrittori, il Cibrario, pubblicava, quindici o diciott’anni addietro, un accurato e interessante lavoro, col modesto titolo di Tavole cronologiche degli acquisti e delle perdite della Casa di Savoia.

Nulla di più istruttivo in ordine al modo col quale si è venuta preparando l’unità d’Italia colla Dinastia Sabauda, quanto le imparziali e calme indicazioni di quelle tavole.

Talora sono semplici castella, talora son borghi, più tardi sono ricchi contadi, popolose città o intere provincie che spontanee si vengono collocando sotto le ali dell’aquila sabauda.

Pinerolo, Savona, Rivoli, Ivrea con tutto il Canavese, Fossano, Mondovì, Savigliano, Biella, Cuneo fin dal secolo decimoterzo iniziarono questo spontaneo movimento dei popoli verso la Dinastia predestinata al regno d’Italia.

Nel secolo decimoquinto, morto Filippo Maria Visconti, il voto concorde delle popolazioni lombarde proclama l’unione ai popoli d’oltre Ticino sotto lo scettro dei Principi Sabaudi, ed inizia quella fusione d’aspirazioni, d’interessi e di vita, che, ritentata nel 1848, dovea trovare il suo finale appagamento nell’unità d’Italia che stiamo proclamando e compiendo.

Questa mutua tendenza dei popoli italiani, della Dinastia Sabauda ad associare i propri destini è sentita, è riconosciuta dai popoli e dai Governi forestieri.

Enrico IV immagina di rifare la carta d’Europa; chi pone a capo del maggiore Stato da crearsi in Italia? Il duca di Savoia.

Trattati internazionali aggiungono a quando a quando nuove provincie a quelle possedute dai nostri Principi. Passano appena pochi anni e quelle provincie sono per modo assimilate alle antiche da formare un solo tutto omogeneo, compatto, indissolubile.

È unita a questi Stati appena per sei o sette anni la Sicilia. Ebbene, o signori, passerà da quell’epoca un secolo e mezzo; ed un Siciliano, che mi onoro di chiamare mio amico e di vedere in mezzo a noi, balzato dalle vicissitudini politiche in queste antiche provincie del nuovo regno, troverà in esse scolpiti a segni indelebili, in ogni ordine di fatti e di idee, gli influssi morali dei valorosi Siculi, che nel XVIII secolo seguitavano le sorti di chi per pochi anni era stato il loro principe; è passato un secolo e mezzo da quella temporanea occupazione della Sicilia per parte de’ nostri principi, eppure la memoria di Vittorio Amedeo durerà così viva, ed avrà messe così salde radici, che, appena nel 1848 quei popoli sono liberi, il primo loro atto è quello di acclamare a proprio Re un Principe di questa Dinastia. E nel 1859, non appena la intrepida iniziativa dell’eroico generale Garibaldi restituisce questi popoli a loro medesimi, eccoli concordi far eco alla voce del loro liberatore; ecco questi popoli avere un solo grido di entusiasmo, per acclamare a loro Principe il glorioso capo di questa Dinastia, che veramente merita il nome di nazionale.

Questa medesima tendenza, quale si manifesta in tutta Italia e sempre nell’ordine politico, tale eziandio si manifesterà nell’ordine delle idee e dei sentimenti espressi dalle scienze e dalle lettere.

Urbano VIII, Innocenzo II proclamavano il duca di Savoia guardiano della libertà d’Italia.

Campanella vede in Carlo Emanuele I la salute d’Italia contro la straniera oppressione.

Vincioli, Marini, Chiabrera, Mazzara, nei loro carmi dal secolo XV al secolo XVIII, proclamano che nella Dinastia Sabauda sono le speranze d’Italia.

Che più?

Il bel paese giacerà nel fondo d’ogni dolore, travagliato da mali infiniti, dalle discordie intestine, dalla oppressione straniera. Si sparge l’annunzio che è nato un Principe al Duca di Savoia, ed un potente ingegno, illustre non meno nella severa scienza dei calcoli di quel che lo sia nella immaginosa arte della poesia; uno scrittore che appartiene ad altro Stato, che non è suddito del Duca di Savoia, che non può essere tacciato di cortigianeria, il Manfredi detterà quel mirabile sonetto, nel quale, dopo avervi dipinto l’Italia

Che sedea mesta e avea negli occhi accolto
Quasi un terror di servitù vicina,

conchiuderà, accennata la nascita del Principe di Piemonte, col profetico grido:

Italia, Italia, il tuo soccorso è nato.

Or bene, o signori, dacchè, rammentando il corso de’ secoli, noi vediamo manifestarsi così costante la doppia tendenza della Dinastia ad immedesimarsi nella Nazione, e della Nazione ad immedesimarsi nella Dinastia, non possiamo, non dobbiamo noi trarne la conclusione che io appunto vi proponeva da principio?

Il fatto a cui noi assistiamo oggi lo crederemo un fatto nuovo, o non diremo invece che è il quasi complemento, che è la penultima evoluzione (l’ultima sarà quella che ci renda Roma e Venezia) di quell’elemento tradizionale che deve avere il suo pieno soddisfacimento nell’intera liberazione d’Italia, nell’assoluta e definitiva costituzione della sua unità politica?

In presenza di tali fatti, o signori, io dimentico di essere nato in queste provincie, per non ricordarmi che di essere Italiano. Credetemi, non è perchè in queste antiche provincie noi beviamo colle aure prime l’affetto e la devozione alla Dinastia che io vi scongiuro a non separarla dal suo passato e da quello della nazione; come Piemontese, io terrei anzi un altro linguaggio, io vi direi anzi: troncate pure, se così vi aggrada, il filo tradizionale; segnate pure una linea dalla quale appaia che fino a ieri fu il Piemonte, che da oggi è l’Italia; come Piemontese, non saprei dolermene; anzi, mi si conceda questo breve momento d’orgoglio, anzi io direi: la storia dell’antico Piemonte è abbastanza pura e nobile, perchè ciascuno di noi possa, senza esitanza, assumerne tutta la solidarietà.

Ma è invece come Italiano che io vi dico: deh! non si spezzi questo filo tradizionale, non accresciamo le difficoltà delle nostre condizioni, non priviamoci di quel potente ausiliario, di quell’efficace prestigio che è il tempo!

L’Europa ci sta guardando, e sono tuttavia in essa taluni Stati, taluni Governi, i quali fanno le mostre di non conoscerci ancora, e affettano di chiedere che cosa sia questo regno d’Italia! E ci dicono: non vi conosciamo; chi siete voi? Homo novus. Ebbene, mettiamoci in grado di poter continuare a rispondere: se volete sapere chi sono, chiedetelo agli otto secoli che hanno preparato la mia trasformazione e che mi hanno fatto quale oggi mi rivelo al mondo!

In una parola: manteniamo la formola quale ci è proposta, votiamo la formola, come già l’altro ramo del Parlamento la approvò, affinchè il nostro pensiero, leggendo in fronte alle leggi il nome di Vittorio Emanuele II, possa contemporaneamente abbracciare in un solo e medesimo concetto, la Dinastia e la Nazione, il presente ed il passato, il Re che salvò lo Statuto dopo Novara e il Principe che fondò l’unità d’Italia. (Bravo! Bene!)