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camera dei deputati -- sessione del 1861


Lombardi, Piemontesi, pensate se la vostra dignità, se le vostre memorie, se le vostre speranze vi consentono di accettare il proposto battesimo; la vostra sorte è nelle vostre proprie mani; ricordatevi che l’Italia è sempre stata più vasta del regno, e che Roma è più grande di Monza. Volete voi proclamare il re dei Romani? Proclamatelo; res vestra est. (Bravo! a sinistra)

natoli, ministro per l’agricoltura e commercio. Signori deputati, io comincierò facendo osservare all’onorevole Ferrari, che la numerazione di secondo al nome del Re non può in nessuna maniera destare nella pubblica opinione quei timori ch’egli or dinanzi faceva balenare; perciocchè, quando il Re, per tacere d’ogni altro argomento, in faccia a tutta Europa tolse il titolo di re d’Italia, e si pose a capo della nazione, segnò il vero carattere dell’alleanza della monarchia col principio nazionale.

Entrando ora a discutere intorno al merito dell’opposizione che fa alla propostavi legge l’onorevole Ferrari, dirò anzi tutto che, se gli esempi storici che egli vi ha ricordato sono veri, è vero altresì ch’essi non sono i soli che trovansi in questa materia. Avvegnachè se alcuni principi, mutando lo Stato, mutarono pure la numerazione al loro nome, altri ve ne furono che tal mutazione non fecero; che anzi, quantunque aggranditi di territorio ed elevati nel titolo, l’originaria numerazione al loro nome conservarono.

Così Federico II, duca del Würtemberg, divenuto re per lo trattato di Presburgo, conservò l’antica numerazione al suo nome; e così fece eziandio quel Federigo Augusto III che, per la pace di Posen, da Elettore ch’era della Sassonia, ne divenne il re. Che se a più lontana epoca vorremmo ricorrere, troveremmo pure un Ferdinando V re di Aragona, il quale, quantunque aggrandisse l’avita signoria pel maritaggio con Isabella di Castiglia, e più ancora per le conquiste sui Mori, che da signori correvano le Spagne, la numerazione del nome, ad onta di cotanto mutamento, non mutò; che anzi i successori di lui, divenuti sovrani delle Spagne, religiosamente seguitarono.

Ma andiamo ad altro ordine d’idee.

Un gran fatto si è compiuto in Italia: l’alleanza del principato colla nazione. Quest’alleanza fu giudicata dai nostri grandi pensatori, essere la salute degli Italiani. Machiavelli cercò invano nella famiglia de’ Medici il principe liberatore. Trapassando dolorose istorie di sciagura, si giunse al 1848. Allora la vagheggiata alleanza succede; il principio monarchico si fa compagno del principio nazionale; non è la monarchia che libera la nazione, non è la nazione che concede la corona di Re, ma sono gli sforzi di entrambi che tentano di strappare l’Italia agli stranieri; la quale avventurosa alleanza si annunzia senza velo e senza orpello in quel famoso proclama ai popoli della Lombardia e della Venezia, là dove Carlo Alberto vuole che, passato il Ticino, ai colori italiani s’intrecci la croce di Savoia.

Per mille fatti potrei dimostrarvi, o signori, che l’alleanza di cui discorro è stata ribadita ogni giorno: la legge che vi si presenta ne è l’ultima conseguenza. Essa annoda il passato al presente, unisce la monarchia colla sua storia, e le sue tradizioni alla nazione coi suoi desiderii e coi suoi diritti.

Nel 1688, l’Inghilterra, cacciati gli Stuardi, fondava la sua costituzione su principii veramente liberali. Ma, mentre con gelosa severità si stabilivano in quel paese i diritti della nazione, quelli della successione reale si riconoscevano nella principessa Maria. Fortunata alleanza di due principii che ha prodotto la grandezza della Gran Bretagna.

E felici conseguenze si sarebbero pur vedute in Francia
dopo il 1830 per l’unione dei due principii di cui parlo, se l’Orleanese avesse meglio risposto ai desiderii della nazione.

La legge che vi si presenta, o signori, non contiene formule vane ed inconcludenti, no; essa ha per iscopo di ribadire quella felice unione fra popolo e Re, che finora ha fatto la forza del rivolgimento italiano, e che ne è stato il carattere distintivo. Ora, se, per avventura, si dicesse che Vittorio Emanuele II dovrebbe lasciare la numerazione di secondo, per prendere quella di primo, l’alleanza dei due principii sarebbe rotta; allora non sarebbe più la Casa di Savoia che, fedele alle sue antiche tradizioni, alleatasi colla nazione, si fece continuatrice del 1848; ma si vedrebbe sorgere un nuovo Re, capo di nuova monarchia, a cui per conseguenza non potrebbero essere scudo e sostegno le glorie del passato. Che, se fosse lecito paragonare le piccole alle grandi cose, io vi direi che la necessità di conservare il nome grandeggia talmente nelle leggi della dignità, che fin l’adottato conserva il proprio. Con qual animo, dunque, si vorrebbe alterato il nome, splendidissima gloria d’Italia, e che la fortuna della patria, battuta in un’immensa sventura, riconfortò prima colle libere istituzioni, e poscia allietò coi trionfi di Palestro e di San Martino?

Ma io non potrei terminare il mio discorso, senza dirvi, o signori, che la riforma che si propone a questa legge troverebbe in Italia un triste precedente.

Ferdinando il Vecchio, or terzo, or quarto, secondochè dicevasi di Napoli o di Sicilia, nel 1819, smesse le due numerazioni, addimandossi: Ferdinando I re del regno delle Due Sicilie. E che egli agisse siffattamente ben si comprende: sperava col nuovo titolo nascondere le passate infamie. Ma quando un Re porta tal nome, che ricorda il guerriero nei campi e il cittadino nei Consigli, allora tal nome è patrimonio della patria, che debbesi gelosamente custodire. (Bravo! Bene! Benissimo!)

d’ondes-reggio Se dall’un canto oppugno la prima parte della formola, come ha fatto l’onorevole Ferrari, da un altro sostengo il resto della formola contro le opinioni accennate e non isviluppate dallo stesso Ferrari, senza tema di restringermi nella bolgia dell’antichità, ma anzi sicuro e lieto di camminare nella via diritta della civiltà segnata dai secoli.

Solitamente gli atti s’intestano col nome del Re nei paesi non liberi, perchè il Re ha in essi la potestà legislatrice, e la potestà esecutrice insieme; nei paesi liberi come il nostro, perchè il Re vi ha a sè solo la potestà esecutrice, mentre la potestà legislatrice esercita indivisa coi rappresentanti della Nazione e con un’altra assemblea, la quale, secondo le varie condizioni dei popoli, è di varia indole.

La formula dunque dell’intestazione degli atti fa d’uopo, e non altro, che contenga il nome del Re. Intanto, avvenendo colla successione de’ re, che sovente alcuno abbia il nome stesso d’uno de’ suoi predecessori, per distinguere l’uno dall’altro e non recare confusione negli atti, al nome del re si aggiunge la numerazione, la quale diventa necessaria tosto che vi sia un secondo dello stesso nome. Imperocchè un primo può aggiungere questo numero primo, ma è piuttosto superfluità che no; può tralasciarlo, ed è meglio che lo tralasci. I fondatori di grandi imperi l’hanno sempre tralasciato. (Benissimo!) È la storia che poscia li addimanda primi, onde vadano distinti da un secondo, che porti per avventura il loro medesimo nome.

Signori, non v’ha dubbio che varie volte fu un regno d’Italia, come diceva bene il signor Ferrari, pure non credo fosse stato regno che, come questo, abbracciasse presso a poco