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I SIGILLI DOLIARI NELLE BASILICHE CRISTIANE




Nuove osservazioni.


Una serie assai complessa di ragioni che per disteso esposi in un mio articolo pubblicato nel Nuovo Bullettino di Archeologia Cristiana1 mi persuadeva nel 1896 a imprendere una ricerca sistematica dei sigilli doliari sulle tegole dei tetti delle basiliche di Roma. Ritorno sull’argomento nel desiderio che tali ricerche vengano estese al difuori di Roma, ovunque sono basiliche antiche o medievali.

Innanzi tutto mi interessava che coloro i quali hanno l'amministrasione di quelli e di altri antichi edifici, conosciuto il pregio di uno dei rami più importanti della epigrafia, impedissero in ogni modo la distruzione e la dispersione dei vecchi materiali, spesso cosi preziosi per la storia. Di più, con le mie ricerche io voleva prestare una modesta cooperazione all'aumento delle grandi raccolte epigrafiche, che il ch. Dressel riunisce in un unico, colossale inventario nel volume XV del Corpus inscriptionum latinarum, stimando conveniente che anche l’archeologia cristiana stendesse una mano a quella classica; e, oltre a ciò, io era sicuro di poter ritrarre dallo studio metodico dei bolli doliari qualche dato che valesse a chiarire la storia delle singole basiliche, nei più antichi periodi della loro esistenza.

Nè le mie speranze andarono deluse; chè anzi, oltre il ritrovamento di inedite ed importantissime inscrizioni, oltre aver interessato i cultori di tali studi a un tal genere di particolari ricerche feconde di risultati, dei quali è sempre assai difficile prevedere la portata, oltre aver potuto illustrare un passo assai importante della vita di Damaso e della storia della basilica di s. Maria Maggiore con la scoperta di un solo sigillo doliare, l'analisi ulteriore ha manifestato sulle figuline che furono in Roma in cosi gran numero alcuni fatti generali che servono a stabilire meglio i canoni della epigrafia doliare, anche dopo quel tanto che ne hanno scritto il Marini, il Borghesi, il Descemet, il de Rossi, il Dressel e moltissimi altri.

Mi guarderò bene dal ripetere quanto tutti costoro hanno detto e comincierò col notare che la produzione figulina, secondo quanto anche Plinio asserisce, è assai antica nella storia dei popoli.

Cosi è ragionevole ritenere che essa non sia stata estranea alle più vetuste costruzioni di Roma. È vero che di quell’epoca si conoscono solo grandiosi avanzi della cosi detta opera quadrata, usata nei pubblici edifici e nelle grandi fabbriche, ma come non sospettare che le reliquie di quella primitiva arte figulina non sono pervenute a noi per l’assidua e demolitrice opera del tempo, per i numerosi incendi di Roma, per le devastazioni successive e per la costante e progressiva elevazione del suolo della città, dovuta anche ad un innalzamento del livello del Tevere?

Non sembri vana speranza la mia, se affermo che uno scavo regolare nel Trastevere e nel Campo di Marte ci darebbe, su questo argomento, le più interessanti scoperte. Si sente ripetere assai spesso che Augusto, avendo trovato Roma costruita di tufo e di laterizi, la lasciò splendente e ricca di marmi, e pure delle opere precedenti assai

  1. Ann. II, 1896, p. 62-89.