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Canto quinto 99


L’archipoeta Barabal secondo
     Da’ suoi cento trionfi alfin qui posa,
     E in adorazion d’un mappamondo
     Regio gratta la cetra e un’altra cosa;
     Ballano a lui dintorno il giro tondo,
     Al suo verso inneggiando e alla sua prosa,
     Ebbri mignoni, femminacce impure,
     Ruffian, baratti e simili lordure.

Pecoraggin plebea, pazzo talento
     Di quella dea che con agevol ruota
     Schiaccia a terra le gemme e al firmamento
     Con cieco turbinio lancia la mota,
     Acrobata virtù che ad ogni vento
     Gira con arte ai soli onesti ignota,
     Diedero a lui, che in verità n’è degno,
     Su questa terra imprescrittibil regno.

Già presso all’antro s’era Esperio tratto,
     Ma l’ammonì con voci alate Edea:
     Dove t’innoltri più? férmati; e tratto
     Per un braccio, in tal dire, a sè l’avea:
     Qui, fuor che il mostro e chi com’esso è matto,
     Entrar mai nessun altro abbia in idea,
     Chè questa bestia per costume antico
     Chi fra’ suoi non s’ingreggia ha per nemico.