Ma più che pietre enormi effigiate
E in Dei cangiate da scalpel divino,
Più che vivi tessuti ed animate
Tele in cui s’eternò l’angel d’Urbino,
E immaginati bronzi e delicate
Opere di cesello e di bulino,
Men belli oggetti ma più rari e santi
Son di questo Museo gl’incliti vanti.
Qui fra la lancia che trafisse Cristo
E un damascato saracin cangiarro
Ammirasi il baston del quinto Sisto
E di Cortes la spada e di Pizzarro;
Quando scese in Olanda al gran conquisto
Il duca d’Alba avea là quel tabarro;
Questa mannaja ancor di sangue immonda
Mozzò di Corradin la nuca bionda.
Con le indulgenze di Leone e i brevi
Di Bonifacio, ora sgualciti e rotti,
Qui si spiegan le bolle acri agli Svevi,
Là si aggrinzan d’Arrigo i calzerotti,
Ch’ei lasciò quando scalzo in su le nevi
Ebbe in Canossa a vigilar tre notti;
E di Gregorio la babbuccia è questa
Ond’ei calcò dell’aspide la testa.