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Canto undecimo 233


Chi per fame di lucro o di possanza
     Rinnegò l’alta idea che un dì l’accese,
     Perennemente in tormentosa danza
     Turbina in questo squallido paese:
     Ogni giro che fa, muta sembianza,
     E col prossimo suo viene alle prese;
     Ad arraffar la granfia avido ruota,
     Ma la ritrae con l’ugne mozze e vuota.

Vedi quell’altalena eretta sulla
     Roccia, da cui fremendo il mar si arretra,
     E quell’ombra di re, ch’ivi si culla,
     Dal bieco sguardo e dalla faccia tetra?
     Essa è del Tentennon l’anima brulla;
     Nè tregua mai di cotal gioco impetra,
     Gioco o supplizio che la Storia inflisse
     A chi tradendo e titubando visse.

Pende in un ondeggiar perpetuo e lento
     Fra due travi la bieca Ombra sospesa,
     E una salma ti par ch’onduli al vento
     In fra le gambe d’una forca appesa;
     La Viltà quindi e quinci il Tradimento,
     Ond’ebbe Italia invendicata offesa,
     Col guardo al suol, con man di sangue tinta,
     Alternamente a lei danno la spinta.