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Canto quinto 113


Si rialzò, fasciò la ria ferita,
     Prese nel mostro indegno ampia vendetta,
     Ma la piaga non era anco guarita,
     Che un’ambascia il travaglia e l’assaetta;
     Un malore, una smania indefinita
     Tutto sossopra l’animo gli getta,
     E con la smania un gran furor l’assale
     Di legger libri in furia e dirne male.

Ed il peggio è, che il maledetto seme
     Della topino-majalesca rabbia
     Tutta gli avviva e gli raccende insieme
     Nel guasto sangue la sbirresca scabbia:
     Ad ogni nuovo libro ulula, freme,
     E par che la terzana o il tetano abbia;
     Sputa foco e veleno, e con ingorde
     Fauci s’avventa a chi gli è presso, e il morde.

Così, mordendo a questa e a quella parte
     E inoculando impune il suo veleno,
     Sparge la lue, che in scellerate carte
     Indi si versa e di cui ’l mondo è pieno:
     Tante non fece il sanguinoso marte
     Vittime un dì sul disputato Reno,
     Quant’opre insigni insudicia ed intacca
     Questa di censurar rabbia vigliacca.