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Canto quinto 101


Prende poi grammi sei del vecchio strutto,
     Onde Orazio ad Augusto unse il crescione;
     Con mezza libbra di latin costrutto
     E di latina prosodia li pone;
     Poi di pepati aggettivuzzi il tutto
     Spolvera, e lo rimesta in un teglione;
     Fatto infine un paston lungo un buon metro,
     L’unge ben d’olio, e se lo schiaffa dietro.

Distendendolo poi sopra un tagliere,
     Lo maneggia, lo spiana, il taglia a fette,
     E queste fette, lunghe a suo piacere,
     Le assola a quattro a quattro in forme addette;
     Indi a bagnomaria, com’è dovere,
     Nella pajuola a cuocere le mette,
     E per dolciumi prelibati e rari
     Le serve calde ai gonzi ed ai compari.

Ma già di grida fragorose i cupi
     Alvi suonan dell’antro; ecco, ecco i suoi
     Fidi: han d’uomini aspetto, urli di lupi,
     Servilità di pecore e di buoi,
     Volti o ceffi di corno, anzi di rupi,
     Canini i denti ed asinini i cuoi;
     Muovono dietro a lui col capo fitto
     Al suol, le mani a terra e a buco ritto.