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242 ars et labor

Ma fughiamo i tristi pensieri: a che giovano?

Il sempre sospirar nulla rileva...

disse il Petrarca che pur tante lacrime e tanti sospiri dolcissimi aveva tessuti, corone di fulgide stelle, per l'aurea treccia di Avignone; e se i fiori cadono, quelli che restano si svolgono in maturi frutti d'opere e di vita. Ed il poeta infatti ci invita ad obbedire a quel novo fremito fecondo che è corso per le zolle e peri còrtici e nell'aria limpidissima.

Chinatevi al lavoro, o valide àmeri!
Schiudetevi agli amori, o cuori giovini!
Impennatevi ai sogli, ali dell'anime!
Irrompete a la guerra, o desii torbidi!
Ciò che fu torna e tornerà nei secoli
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È il flusso e il riflusso perenne delle cose e dei fenomeni; p la Vita che germoglia ed erompe vittoriosa sotto il calcagno stesso della Morte; è la giovinezza, la giovinezza santa e forte, la giovinezza, primavera della vita, che prepara le messi future, che ha sangue e nervi e vigore per tutte le battaglie e per tutte le vittorie.

E ne è bene un simbolo questo irrequieto Marzo ventoso, che, perdonatemi se questa volta vi rovescio addosso tanta poesia, fu così ben cantato dal Costanzo. E perdonatemi la molta poesia anche in grazie di questa che sto per darvi, del romano poeta degli Eroi della soffitta che avrà il torto (e l'ha certamnte) di aver scritto dei versi un po' scapigliati, un po' sfrenati, un po' troppo rudi e (come dire?) alla mano, ma che è, ad ogni modo, dimenticato a gran torto oggi, che la poesia si accontenta di vuote forme speciose, e che si potrebbe ben giustamente paragonare alla maschera da teatro alla quale la scimia, guardandola, dille le celebri parole: O quanta species cerebrum non habet!

Schivo di ceppi e lucri,
Tu non impingui cànova o granaio;
Né invidii il nome, nè la facil gloria
D'illustre servo o provvido usuraio.

Ma, sciolto da ogni cura,
Tu, renitente, come sempre, a tutto,
Lasci le grasse entrate e l'ansia e i calcoli
A quanti in ogni fior cercano un frutto.

Ed alla gran regina
Chiedi l'ora più bella e più sublime;
Le sue febbri, i suoi sogni, i suoi delirii,
L'olimpiche sue grazie, ultime e prime.

Più che l'immenso verde,
Ami l'erbuccia de le siepi, uscita
Pur ora, ma che sotto al piè ti tremoli,
Quasi primizia de la nuova vita.

E più avanti:

Su, fate largo al marzo,
Al gran pazzo dell'anno, al gran ribelle;
Al suo passaggio un fremito
Seroe la terra, l'ocean, le stelle.

Trasfigurata, gli occhi
Quasi riapre la natura al giorno.
Tutto i sveglia e palpita,
Tutto in parto divino è a lui d'intorno.

Scapato, estroso, tanta
Onda di vita gli ribolle in core,
Che non gli basta di veder rinascere
Anno per anno tutto quel che muore,

Ma, turbinando, il vecchio
Mondo sospinge a nuove lotte, e spera
Forse fra immani stragi e informi ruderi
Piantar chi sa qual vindice bandiera.

E ben sentivano i padri nostri questa novità di forme e di spiriti che il Marzo arrecava, e, profondamente religiosi quali erano ed alla religione informando tutti gli atti della loro vita, festeggiavano il mese irrequito e attivi con riti e con cerimonie inspirate appunto ai suoi rivolgimenti e alle condizioni della Terra. E facevano i Greci feste ad Apollo Delfinio, come a protettore dei navigatori che di questo tempo rimettevano in mare gli schiaffi le barche ke navi, e ad Artèmide Munichia, che ai loro occhi era una dea lunare influente su la navigazione e adorata nelle città marittime.

Il culto di Apollo Delfinio era venuto dall'isola di Creta in quelle dell'Arcipelago prima di arrivar nel continente e di estendersi a tutte le isole del Mediterraneo. Nell'inno omèrico a lui dedicato è detto come alcuni Cretesi partiti da Canossa furono scelti da Apollo quali sacerdoti del santuario di lui che già esisteva nell'isola di Delfo. Egli stesso il dio, sotto la forma di un delfino, che era il suo emblema, aveva diretto la loro nave traverso le onde del mare e li aveva fatti accostare a Crissa, a' piedi del monte Parnaso; e là avevano essi eretto un altare invisibile molto di lontano, avanti il quale lo avrebbero invocato negli anni a venire, sotto il nome di Delfico (Delfinios). Essi portarono in seguito il suo culto a Delfo.

Secondo l'inno omèrico citato, si potrebbe affermare che le feste Delfinie in onore di Apollo siano state le prime deste religiose che si celebrassero nell'isola di Delfo. Il giorno 6 Munichio00 un corteo di giovini Atenieri si recava a pregare al tempio che da lungo tempo Egeo aveva consacrato ad Apòlline Delfinio e ad Artèmide Delfinia o Dictynna; e recavano tra mano rami d'olivo avvolti in una striscia di lana candidissima. E narra la leggenda che Tèseo, sul punto di partire per l'isola di Creta, a fine di accompagnarvi l'annuo tributo di fanciulli e di fanciulle che gli Ateniesi dovevano al Minotauro, il feroce mostro rinchiuso nel cuore del famoso Labirinto, onde più tardi lo stesso Tèseo si districò con l'aiuto di Arianna che gli porse il celebre filo, avesse supplicato Apòlline nel Delfinion compiendo l'identico rito. Quello stesso giorno, il trierarca savrificava su l'altare di Artèmide Minichia situato nella penisola Munichia.

E una simile festa Delfinia si faceva pure a Eginia, con giochi chiamati hydrophoria e con lotte ed esercizi ginnastici.

Alla metà del Munichion, ciò è in fine del nostro Marzo, si celebravano anche feste ad Artèmide Minichia, il tempio della quale, privilegiato dal diritto d'asilo, sorgeva nella penisola del Pirèo, coronando la sommità delle colline che la formano. Secondo Plutarco, gli Ateniesi celebravano questa festa il giorno 16 del mese di Munichion, data anniversaria della vittoria riportata dai Greci su i Persiani nelle acqua di Salamina: allora infatti la luna (simboleggiata a punto di Artèmide) aveva brillato pienissima nel cielo ad illuminare la vittoria della piccola flotta ellènica. In tal festa si offerivano alla dea piccole focacce, intorno alle quali erano affisse alcune minuscole torce accese; e gli efèbi della città di Atene che facevano nel porto di Munichia una gara di corsa su piccoli schiffi, che erano dal sacerdote consacrati per l'occasione.

I Romani solennizzavano il primo di marzo, che era anticamente primo giorno dell'anno, con una simpatica e bellissima festa che ci dà la missura della venerazione profonda e dell'alto culto in che era da essi tenuta la madre: la festa delle Matronalia (matrone era tutte le donne libere) in onore di Giunone Lucina, protettrice appunto delle madri e, più specialmente, propiziatrice dei parti, personificando quali la mater familias, cioè il principio della fecondità e della prosperità nello Stato. In quel giorno delle Kalende di Marzo, dicevano, erano nati Marte e Romolo, i due padri della razza romana; e vi si rimandava anche la memoria delle Sabine che, rapite alle famiglie e rese feconde per l'intervento del dio Fauno, assicurarono l'avvenire della nazione.

La festa incominciava nel Lucus, bosco sacro, che circondava l'altare, nome onde si credè erroneamente derivato

  1. Carducci. Canto di Marzo.