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— Non vi mostro il biglietto, — aveva continuato Emilio — perchè basta la parola. Sono seimila fiorini, nè più nè meno. Non c’è sbaglio... Domani ci sarà il denaro... Domani saremo ricchi... Domani il mondo sarà nostro. Io sono il re di Milano; sono milionario... Adoratemi.

Emilio fece una piroletta e continuò.

— Come portano gli statuti, il quinto sarà speso subito in una gran baldoria. La gloria di Lucullo e di Baldassare sarà ecclissata dalla mia. Nei secoli venturi si parlerà di una cena di Emilio Digliani con entusiasmo. Saremo sette uomini e sette donne, come il solito... cioè, come di rado! Viva la lotteria di Francoforte!

— Viva! — ripeterono in coro i sei amici.

E Teodoro, preso Gustavo per mano, si diede a ballar in mezzo alla bottega e a girar in tondo come un selvaggio della Nuova Olanda dinanzi al vinto nemico che sta cuocendo allo spiedo.

Ma quell’allegria fu di cortissima durata.

Teodoro s’arrestò di botto collo sguardo fisso all’uscio della bottega che si schiudeva.

Un uomo di aspetto sinistro, con due ignobili baffi cadenti sul mento rasato, seguito da due guardie di polizia entrò nella bottega.

Teodoro aveva abbandonate le mani di Gustavo, e stava per fuggire...

Un pensiero lo arrestò: diede un’occhiata sublime ad Emilio, che non s’era accorto di nulla, e andò incontro al commissario.