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ignorante come quella d’una tattuata fanciulla di tribù Irochese.

Suo padre era cocchiere in casa Cellerovigo; sua madre portinaia nella stessa casa. La Gigia con due minori sorelle era nata e cresciuta nelle stanze a terreno del paterno alloggio, con che razza di educazione... Dio vel dica. A dieci anni, levata dalle elementari, dove aveva imparato a leggere nel libro da messa di sua madre, tanto da far capire a chiunque ch’ella non ci capiva un’acca, fu mandata a scuola di modista, come fattorina minore, senz’obbligo di portar lo scatolone per le vie. A diciott’anni la Gigia che andava a scuola e tornava a casa sempre sola, quantunque fosse stata accompagnata da più di un centinaio di cicisbei diversi, non s’era ancora innamorata di alcuno.

Chi non conosce la proverbiale manovra dell’accompagnar a casa le fanciulle che vanno sole per la via?


Un giovinetto appena scappato dal collegio, che ha avuto il permesso da papà di uscir solo di casa, allo svoltar della via s’abbatte in una ragazza, sola, graziosa, colla sua mantiglietta di seta raccolta sul seno, un sospetto di crinolino sotto la gonna, e un cappello che raccoglie nel suo curvo grembo un visino sentimentale composto: da un tuppè di capelli biondi o neri; una fronte leggermente convessa, sotto alla quale splendono due occhi più furbi che grandi, più tenuti in freno che per natura modesti; da un