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D’ARISTOFANE. 249
Vec.
Canto à me istessa il mio amico Epigene.
Gio.
Hai altro inamorato che Gere?
Vec.
Te lo farò conoscere, che à man’à mano mi venirà trovare. egliè questo, non di te ò scelerato ei ha bisogno niente.
Gio.
O corrotta per Giove, presto esso lui te’l mostrerà. e io mi parto.
Vec.
Et io à ciò che conosci che piu di te io sò.
Gio.
Volesse dio che dormessi presso una giovanetta, et non chiavasse prima una difforme, ò vecchia.
Vec.
Piangerai dunque per Giove e chiavarai, che queste cose non sono in Charissene. è cosa giusta à far ciò secondo la lege s’ella publicamente signoregia. hor me ne vò osservando quello, che sei per fare.
H.
Voglia dio che la piglij lei sola, ne la quale havendo io ben bevuto vorrei abbattermi.
Gio.
Ho ingannata questa maladetta vecchia, ch’è senza cervello, e pensa ch’io debia star con seco.
Giovanetta.
Egli è costui, de’l quale riccordate siamo, eia, eia, amico mio hor vien da me, che mi sij marito con l’appiacere, imperche un certo amore mi conturba de questi toi capelli, et un certo desiderio mi assalta, il quale mi da tristezza. lascia, che ò amore io vengo à te, et fallo venire ne’l mio letto.
Gio.
Vien eia eia, e corre e aprimi la porta: se non, si struppierò l’amico tuo. ma voglio essere sbattuto ne’l tuo seno da’l tuo segio. ò Venere perche