Ma chi mai fu sì saggio, o mai sì santo,
Che di esser senza macchia di pazzía,
O poca, o molta, dar si possa vanto?
Ognun tenga la sua; quest’è la mia,
Se a perder s’ha la libertà, non stimo
Il più ricco cappel, che in Roma sia.
Che giova a me sedere a mensa il primo,
Se per questo più sazio non mi levo
Di quel che è stato assiso a mezzo, o ad imo?
Come nè cibo, così non ricevo
Più quíete, più pace, o più contento;
Se ben di cinque mitre il capo aggrevo.
Felicitade istima alcun, che cento
Persone t’accompagnino a palazzo,
E che stia il volgo a riguardarti intento;
Io lo stimo miseria, e son sì pazzo,
Ch’io penso, e dico, che in Roma fumosa
Il Signore è più servo, che ’l ragazzo.
Non ha da servir questi in maggior cosa,
Che d’esser col signor quando cavalchi;
L’altro tempo a suo senno va, o si posa.
La maggior cura, che sul cor gli calchi,
È, che Fiammetta stia lontana, e spesso
Causi che l’ora del tinel gli valchi.
A questo, ove gli piace, è andar concesso
Accompagnato, e solo; a piè, a cavallo,
Fermarsi in ponte, in banchi, e in chiasso appresso.