Non feci mai tai cose, e non so farne,
Agli usatti, o agli spron, per ch’io son grande,
Non mi posso adattar per porne, o trarne.
Io non ho molto gusto di vivande,
Che scalco sia: fui degno esser al mondo,
Quando viveano gli uomini di ghiande.
Non vo’ il conto di man torre a Gismondo:
Andar più a Roma in posta non accade
A placar la grand’ira di Secondo.
E, quando accadesse anco in questa etade,
Col mal, ch’ebbe principio allora forse,
Non si convien più correr per le strade.
Se far cotai servigi, e raro terse
Di sua presenza de’, chi d’oro ha sete,
E stargli, come Artofilace a l’Orse:
Più tosto che arricchir, voglio quìete;
Più tosto, che occuparmi in altra cura
Sì, che inondar lasci il mio studio a Lete;
Il qual, se al corpo non può dar pastura,
Lo dà a la mente con sì nobil esca,
Che merta di non star senza cultura.
Fa, che la povertà meno m’incresca,
E fa, che la ricchezza sì non ami,
Che di mia libertà per suo amor esca.
Quel, ch’io non spero aver, fa ch’io non brami:
Che nè sdegno, nè invidia mi consumi,
Perchè Marone, o Celio il Signor chiami.