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Qual ſotto il piū cocente ardore eſtiuo
Quando di ber piū deſioſa e l’herba
Il fior ch’era vicino a reſtar priuo
Di tutto qll’humor ch’in vita il ſerba,
Sente l’amata pioggia e ſi fa viuo,
Coſi poi che difeſa ſi ſuperba
Si vide apparecchiar la meſſaggiera,
Lieta e bella torno come prim’era.
[109]
La cena ſtata lor buon pezzo auante
Ne anchor pur tocca al ſin goderſi i feſta.
Senza che piū di caualliero errante
Nuoua venuta ſotte lor moleſta,
La goder glialtri, ma non Bradamante
Pure all’ufanza addolorata e metta.
Che quel timor che ql ſoſpetto ingiuſto
Ch ſemp hauea nel cor le tollea il guſto.
[110]
Finita ch’ella ſu: che faria ſorſè
Stata piū lunga, fe’l deſir non era
Di cibar gli occhi, Bradamante ſorſè
E ſorſè appretto a lei la meſſaggiera:
Accenno quel Signore ad vn che corſe
E prettamente allumo molta cera,
Che ſplender ſé la ſala in ogni canto
Quel che ſegui diro ne l’altro canto.
CANTO XXXIII
[1]
Protogene, Timante, Apollodoro,
Apelle piū di tutti queſti noto,
E Zeuſi, e gli altri ch’a quei tèpi ſoro
Di quai la fama (mal grado di Cloto
Che ſpinfe i corpi, e dipoi l’opre loro)
Sempre ſtara, ſin che ſi legga e ſcriua
Merce de gli ſcrittori al mondo viua.
[2]
E quei che ſuro a noſtri di: o ſono hora
Leonardo, Andrea mategna, Giā belilo,
Duo Dotti: e ql ch’apar ſculpe e colora
Michel piū che mortale Angel diuino,
Baſtiano: Raphael: Titian e’ honora
No men Cador che qi Venetia e Vrbino:
E gli altri di cui tal l’opra ſi vede
Qual de la priſca etā ſi legge e crede.
[3]
Queſti che noi veggian pittori, e qlli
Che giā mille e mill’anni in pregio ſuro:
Le coſe che ſon ſtate co i pennelli
Fatt’hanno, altri ſu l’affé altri fu’l muro,
Non perho vdiſte antiqui, ne nouelli
Vedette mai, dipingere il ſuturo
E pur ſi ſono hiſtorie ancho trouate
Che ſon dipinte inanzi che ſian ſtate.