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Non ſon, non ſono io ql, che paio in viſo
Quel ch’era Orládo emorto, & e ſotterra
La ſua Donna ingratiſſima l’ha vcciſo
Si, mancando di ſé, gli ha fatto guerra,
Io ſon lo ſpirto ſuo da lui diuiſo
Ch’ in queſto inſerno tormentadoſi erra
Accio con l’ombra ſia, che ſola auanza,
Eſempio a chi in Amor pone ſperanza.
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Pel boſco erro tutta la notte il Cote
E allo ſpuntar della diurna ſiamma
Lo torno il ſuo deſtin fopra la ſonte
Doue Medoro inſculſe l’epigramma,
Veder l’ingiuria ſua ſcritta nel monte
L’accefe ſi, ch’in lui non reſto dramma
Che non foſſe odio, rabbia, ira, e furore
Ne piú indugio che traſſe il brado ſuore
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Taglio lo ſcritto e’l ſaſſo, e fin’ al cielo
A volo alzar ſé le minute ſchegge:
Infelice quell’antro, & ogni ſtelo
In cui Medoro e Angelica ſi legge,
Coſi reſtar quel di, ch’ombra ne gielo
A paſtor mai non daran piú, ne a gregge
E quella ſonte giá ſi chiara e pura
Da cotanta ira ſu poco ſicura.
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Che rami, e ceppi, e trochi, e faſſi, e zolle
Non ceffo di gittar ne le beli’ onde
l’in che da ſommo ad imo ſi turbolle
Che non ſuro mai piú chiare ne monde:
E ſtanco al fin’, e al ſin di ſudor molle
Poi che la lena vinta non riſponde
Allo ſdegno, al graue odio, all’ani, i. ira
Cade fu’l prato e verſo il ciel ſoſpira.
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Afflitto e ſtáco al ſin cade ne l’herba
E ſicca gliocchi al cielo e no fa motto:
Senza cibo e dormir coſi ſi ſerba
Che’l Sole eſce tre volte, e torna ſotto,
Di creſcer non ceffo la pena acerba
Ch ſuor del ſenno al ſin l’hebbe códotto.
Il quarto di da gran furor còmoffo
E maglie, e piaſtre ſi (traccio di doſſo.
[133]
Qui riman l’elmo, e la riman lo ſcudo
Lontan gli arneſi, e piú lontan l’ufbergo:
L’arme ſue tutte in ſomma vi concludo
Hauean pel boſco differente albergo,
E poi ſi ſquarcio i pani, e moſtro ignudo
l’hiſpido ventre, e tutto’l petto e’l tergo,
E comincio la gran ſollia, ſi horrenda
Che de la piú non fará mai ch’intenda.
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In lauta labbia in tanto furor venne
Che rimaſe offuſcato in ogni ſenſo,
I >i lor la ſpada in man non gli ſouenne
Che fatte hauria mirabil coſe penſo,
Ma ne quella, ne ſcure, ne bipenne
Era biſogno al ſuo vigore immenſo,
Quiui ſé ben de le ſue proue eccelſe
Ch’ un alto pino al primo crollo ſuelſe.
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E ſuelſe dopo il primo altri parecchi
Come foſſer ſinocchi, ebuli, o aneti
E ſé il ſimil di querce e d’olmi vecchi
Di faggi e d’orni, e d’ illiei, e d’abeti:
Quel ch’un’vcellator che s’apparecchi
II campo mondo fa per por le reti
De i giflchi e de Ir doppie e de l’urtiche
Facea de cerri, e d’altre piante antiche.