Pagina:Ariosto - Orlando furioso, secondo la stampa del 1532, Roma 1913.djvu/333


 [128]
Non ſon, non ſono io ql, che paio in viſo
     Quel ch’era Orládo emorto, & e ſotterra
     La ſua Donna ingratiſſima l’ha vcciſo
     Si, mancando di ſé, gli ha fatto guerra,
     Io ſon lo ſpirto ſuo da lui diuiſo
     Ch’ in queſto inſerno tormentadoſi erra
     Accio con l’ombra ſia, che ſola auanza,
     Eſempio a chi in Amor pone ſperanza.

 [129]
Pel boſco erro tutta la notte il Cote
     E allo ſpuntar della diurna ſiamma
     Lo torno il ſuo deſtin fopra la ſonte
     Doue Medoro inſculſe l’epigramma,
     Veder l’ingiuria ſua ſcritta nel monte
     L’accefe ſi, ch’in lui non reſto dramma
     Che non foſſe odio, rabbia, ira, e furore
     Ne piú indugio che traſſe il brado ſuore

 [130]
Taglio lo ſcritto e’l ſaſſo, e fin’ al cielo
     A volo alzar ſé le minute ſchegge:
     Infelice quell’antro, & ogni ſtelo
     In cui Medoro e Angelica ſi legge,
     Coſi reſtar quel di, ch’ombra ne gielo
     A paſtor mai non daran piú, ne a gregge
     E quella ſonte giá ſi chiara e pura
     Da cotanta ira ſu poco ſicura.

 [131]
Che rami, e ceppi, e trochi, e faſſi, e zolle
     Non ceffo di gittar ne le beli’ onde
     l’in che da ſommo ad imo ſi turbolle
     Che non ſuro mai piú chiare ne monde:
     E ſtanco al fin’, e al ſin di ſudor molle
     Poi che la lena vinta non riſponde
     Allo ſdegno, al graue odio, all’ani, i. ira
     Cade fu’l prato e verſo il ciel ſoſpira.

 [132]
Afflitto e ſtáco al ſin cade ne l’herba
     E ſicca gliocchi al cielo e no fa motto:
     Senza cibo e dormir coſi ſi ſerba
     Che’l Sole eſce tre volte, e torna ſotto,
     Di creſcer non ceffo la pena acerba
     Ch ſuor del ſenno al ſin l’hebbe códotto.
     Il quarto di da gran furor còmoffo
     E maglie, e piaſtre ſi (traccio di doſſo.

 [133]
Qui riman l’elmo, e la riman lo ſcudo
     Lontan gli arneſi, e piú lontan l’ufbergo:
     L’arme ſue tutte in ſomma vi concludo
     Hauean pel boſco differente albergo,
     E poi ſi ſquarcio i pani, e moſtro ignudo
     l’hiſpido ventre, e tutto’l petto e’l tergo,
     E comincio la gran ſollia, ſi horrenda
     Che de la piú non fará mai ch’intenda.

 [134]
In lauta labbia in tanto furor venne
     Che rimaſe offuſcato in ogni ſenſo,
     I >i lor la ſpada in man non gli ſouenne
     Che fatte hauria mirabil coſe penſo,
     Ma ne quella, ne ſcure, ne bipenne
     Era biſogno al ſuo vigore immenſo,
     Quiui ſé ben de le ſue proue eccelſe
     Ch’ un alto pino al primo crollo ſuelſe.

 [135]
E ſuelſe dopo il primo altri parecchi
     Come foſſer ſinocchi, ebuli, o aneti
     E ſé il ſimil di querce e d’olmi vecchi
     Di faggi e d’orni, e d’ illiei, e d’abeti:
     Quel ch’un’vcellator che s’apparecchi
     II campo mondo fa per por le reti
     De i giflchi e de Ir doppie e de l’urtiche
     Facea de cerri, e d’altre piante antiche.